Diorama

Mensile di attualità culturali e metapolitiche diretto da Marco Tarchi

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Destra e sinistra dopo il voto

19 Maggio 2011 Redazione

Oggi più che mai, i concetti di destra e sinistra possono avere un’utilità, per comprendere le dinamiche politiche ed esercitarvi un influsso, solo se sono considerati categorie del tutto convenzionali, che si prestano a definire prese di posizione su singoli temi e in specifici momenti.
[intervista rilasciata da Marco Tarchi a Graziella Balestrieri per Il Foglio Quotidiano]
[intervista rilasciata da Marco Tarchi a Graziella Balestrieri per Il Foglio Quotidiano]

Visti i primi risultati, FLI sembra aver presentato candidati inesistenti. Che partito è questa strana creatura di Fini?

È, al momento, un contenitore privo di un’univoca forma programmatica, nel quale sono confluiti soggetti disparati, uniti solo da motivi di frustrazione nei confronti dei dirigenti, nazionali o locali, del Pdl. C’è un po’ di tutto: ex missini che hanno sempre vissuto la leadership del parvenu Berlusconi come un’offesa alla presunta superiorità della propria tradizione ideologica ed etica, quadri intermedi di Alleanza nazionale e Forza Italia rimasti schiacciati nelle faide locali e convinti di essere stati trascurati a profitto di portaborse e leccapiedi, qualche idealista alla ricerca di un luogo dove coltivare la pianticella della propria utopia e un numero non indifferente di opportunisti convinti di aver puntato su un cavallo vincente. Era difficile immaginare da questo amalgama confuso potessero scaturire candidature di alto profilo; tutt’al più si poteva puntare su qualche ras locale. E i risultati sembrano dimostrare che il neonato partito ha già il fiato corto.
 
Fini dovrebbe secondo lei lasciare la poltrona da Presidente della Camera?
È poco realistico giudicare la politica con il metro dell’etica. E un dato certo è che, se lasciasse lo scranno in questo frangente, Fini perderebbe gran parte della visibilità di cui gode. Tanto più che nell’incompiuto Terzo Polo ha concorrenti alla leadership che lo metterebbero in ombra: oggi Casini, in un ipotetico domani Montezemolo. Quindi, restare dov’è gli conviene. E credo che questa sia l’unica considerazione che gli interessa.
 
A Latina l’esperimento fascio-comunista è fallito nonostante i nomi e la pubblicità sui giornali. Secondo lei erano sbagliati gli attori o proprio il fatto di non aver avuto un programma andando così allo sbaraglio?
E quale programma avrebbe potuto produrre un’aggregazione così concepita, senza alcuna elaborazione seria e meditata alle spalle, senza un progetto di stabile collocazione nel quadro politico, senza la vis polemica e gli argomenti che i populisti di vario colore – dalla Lega ai grillini passando per Di Pietro – hanno sviluppato con cocciutaggine e costanza in questi anni? Non poteva certo bastare l’icona Pennacchi, telegenica ma per ora confinata nel recinto degli outsiders bizzarri – le “frange lunatiche”, per dirla con il gergo dei politologi americani –, a riequilibrare queste carenze.
 
La frattura Urso-Bocchino è una questione che Fini non ha saputo gestire, ed in ogni caso secondo lei come gestirà i ballottaggi di Milano e Napoli?
Nel primo caso, la responsabilità è sua e mi sembra che la distanza fra i punti di vista dei due personaggi citati sia destinata a crescere, con prevedibili esiti disgregativi. Nel secondo no: dubito che la strategia del Terzo Polo sia nelle mani della componente Fli. E l’Udc cercherà di calcolare i vantaggi che potrebbero derivarle dalle varie opzioni praticabili senza troppo curarsi dei bisogni del contingente alleato.
 
Fli per ritrovare la propria identità deve allearsi con le sinistre o ritornare alla destra?
Prima di ritrovarla, un’identità dovrebbe averla – e non mi sembra, anche ma non solo per i contrasti fra le sue diverse “anime”, che questo sia il caso. Un’alleanza con la sinistra la squalificherebbe agli occhi di gran parte del suo elettorato potenziale e la ridurrebbe a classico vaso di coccio tra vasi di ferro (o comunque di materiale meno fragile). Un ritorno a destra si configurerebbe come un’umiliazione, e dubito che, al di là delle immaginabili proclamazioni di facciata, verrebbe accolto nello spirito della parabola del Figliol Prodigo. Nel migliore dei casi, il Pdl o la sua successiva incarnazione si aprirebbe a dirigenti e seguaci della componente moderata, ma non a Fini e men che meno ai Bocchino, Briguglio, Granata e sodali.
 
Esiste ancora oggi un concetto di destra, se sì quale e dove trovarlo (spostata verso il centro, verso la sinistra)?
Trattare in sintesi un quesito di questo peso, su cui il dibattito scientifico ruota da decenni, è arduo. Ci provo, limitandomi a dire che, oggi più che mai, i concetti di destra e sinistra possono avere un’utilità, per comprendere le dinamiche politiche ed esercitarvi un influsso, solo se sono considerati categorie del tutto convenzionali, che si prestano a definire prese di posizione su singoli temi e in specifici momenti. In altre parole, si possono identificare comportamenti (e convinzioni che li determinano) che si situano, in relazione a un determinato argomento o problema, più a destra o più a sinistra di altri. Ma chi si colloca più a destra in relazione ad una certa questione, ad esempio su temi etici, può nel contempo stare più a sinistra su un’altra, poniamo temi di politica sociale, o internazionale, o altro. Andare alla ricerca di “essenze”, di sinistre e destre “autentiche” e “integrali” è senz’altro possibile su un astratto piano teorico, ma i riscontri sul terreno delle scelte pratiche rischiano di risultare introvabili. Va detto comunque che, negli ultimi decenni, i partiti che si dicono di destra o di centrodestra, per cercare di apparire più in linea con il presunto vento della storia, hanno accentuato una tendenza già in atto da tempo a far propri punti di vista e parole d’ordine nati e cresciuti a sinistra – dal materialismo pratico (in questo caso in una versione mercantile e consumista) all’utilitarismo, dalla filosofia dei diritti dell’uomo all’individualismo, dall’indifferentismo etico al culto del progresso industriale.
 
Lei conosce molto bene il Presidente della Camera per cui: è sempre stato così (ovvero politicamente vago) o ha un’idea ben precisa in testa? Ovvero: dove sta andando Fini?
Ho conosciuto bene il Fini degli anni Settanta e inizio Ottanta, e già allora mi è parso molto interessato alla politica intesa come luogo di conquista del potere e assai poco ai suoi risvolti culturali e ideali. Si è sempre definito un pragmatico; anzi, per dirla con il suo mentore Almirante, un “pragmatista”. Ma il suo limite, che si è rivelato precocemente, è di non saper accoppiare la spregiudicatezza tattica e il senso delle opportunità – che per un politico di professione sono doti importanti – alla sagacia strategica, che gli è sconosciuta. Ogni volta che si è inoltrato su questo terreno, ha incontrato le sabbie mobili. Sta accadendo anche in questa fase: da anni, resosi conto che non sarebbe mai stato incoronato delfino da Berlusconi, ha deciso di accreditarsi come l’unico politico di spicco riflessivo, dialogante e ligio alla prassi istituzionale del centrodestra, sperando in tal modo di essere giudicato dalla controparte – cioè dal centrosinistra – l’uomo giusto per guidare il governo del paese qualora Berlusconi fosse stato traumaticamente tolto di scena e si fosse entrati in un improvviso periodo di incertezza. Sfortunatamente per lui, né una malattia né una sentenza giudiziaria gli hanno tolto di mezzo l’ingombrante “cofondatore” del Pdl e la sua sistematica opera di erosione dall’interno, di moltiplicazione di distinguo e affondi critici, si è dimostrata indigeribile per i vertici del centrodestra. Si è così giunti all’esplosiva resa dei conti pubblica dell’aprile 2010, probabilmente dettata da opposte sbavature caratteriali, e la corda si è spezzata. A questo punto, pronosticare dove approderà Fini è quasi impossibile, e a complicare lo scenario c’è l’ipertrofica ambizione dell’uomo, che difficilmente gli farà accettare ruoli di secondo piano. Un fallimento di Fli avrebbe, per lui, esiti catastrofici, forse anche sul piano psicologico. Quindi credo che, finché potrà, insisterà nel tentativo di tenere in vita questa sua creatura.
 
Queste amministrative al momento hanno consegnato due sconfitti: Fini e Berlusconi, ed abbiamo visto in aumento i movimenti di Grillo e Di Pietro. Cosa sta cambiando nella società italiana e/o nella visione della politica?
Sta cambiando, in parte, la direzione della persistente ondata di protesta nei confronti della classe politica e del sistema da essa forgiato e diretto. Nel 1993-94, Forza Italia e il Msi-Alleanza nazionale si sono presentati come incarnazioni del Nuovo, espressioni della “sana” società civile insorta contro la corruzione, il piccolo cabotaggio clientelare, l’inefficienza, le ipocrisie del sottogoverno. Ma con il tempo hanno fatto proprie tutte o quasi le pratiche che avevano denunciato come inaccettabili e degradanti. Per dirla alla Berlusconi, hanno semplicemente cambiato il programma nel cartellone del “teatrino della politica”. Era inevitabile che i temi rivendicativi e populisti messi in circuiti ma sostanzialmente elusi trovassero altre, diverse, più dinamiche e meno compromesse espressioni: i movimenti di Grillo e di Di Pietro esemplificano il processo, di cui anche Sel di Vendola è componente attiva – anche se, nel caso dell’Italia dei Valori, contraddizioni e incoerenze hanno iniziato a farsi evidenti, e il successo napoletano di De Magistris, “frondista” per eccellenza, non pare destinato ad alleviare i conflitti interni, ma semmai ad aggravarli.

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