Gadgets, ricatti, memorie.
Fra i molti che hanno accolto con entusiasmo l’uscita in traduzione italiana del Libro nero del comunismo curato da Stéphane Courtois vi è probabilmente un buon numero di persone che rivendicano l’etichetta di non conformisti, si sentono poco in sintonia con il clima politico-culturale vigente in Italia, detestano il " pensiero unico " e storcono il naso di fronte alla retorica occidentalista, sapendo che dietro di essa si nasconde un modello fondato sull’ingiustizia sociale, sul materialismo consumistico e sull’egoismo individualista. Pare a costoro che l’ingresso fra i bestsellers di un volume che denuncia, con uno squillante annuncio in copertina, " crimini, terrore e repressione " perpetrati da regimi e movimenti di ispirazione marxista-ieninista sia un fatto assai positivo, per pi "u ordini di ragioni. Primo, perché alzerebbe il velo su ‘ pagine della storia su cui sin qui aveva regnato, come si è scritto, un " assordante silenzio ". Secondo, perché contribuirebbe a riequilibrare il giudizio sulle responsabilità dei diversi protagonisti dell’orrore " concentrazionario " e omicida che ha percorso il XX secolo al seguito delle utopie totalitarie, screditando la tesi che vorrebbe attribuire un carattere esemplare alle violenze di una sola parte (quella " nazifascista "). Terzo, perché risarcirebbe moralmente, sia pur in ritardo, quei pochi che non rinunciarono a denunciare pubblicamente le storture dell’ideologia comunista in un’epoca in cui quest’ultima era quotidianamente celebrata sulle piazze da partiti, sindacati e gruppuscoli. Quarto, perché porrebbe un grosso ostacolo di traverso alla marcia di avvicinamento al potere in tutta Europa della sinistra, che parecchi sedicenti avversari del pensiero unico, per gli effetti di un trauma giovanile, si ostinano a considerare il nemico principale. Noi siamo convinti, prescindendo da ogni giudizio di merito sugli accennati motivi di soddisfazione, che tutte queste speranze siano mai riposte, e che finiranno coi tramutarsi in cocenti delusioni. Per evitare le quali, invitiamo questi "amici che sbagliano" a seguirci in una sintetica riflessione
Partiamo da una premessa. t lungi da noi l’idea di limitare la libertà di ricerca, su questo come su altri fenomeni storici controversi: i revisionismi li giudichiamo sui fatti, almeno quando le intenzioni non appaiono già in sé faziose. Ben vengano dunque i Courtois e chi vorrà imitarli, purché abbiano talento e metodo all’altezza dell’impresa che si prefiggono. Non intendiamo, qui, pronunciarci sui -contenuti di un libro che taluni bollano come mediocre e zeppo di notizie risapute e altri lodano per la ricca documentazione (facendo pensare, in entrambi i casi, di non averlo letto): ogni cosa a suo tempo. Quei che ora ci interessa è fissare contorni, obiettivi e limiti del dibattito che il volume è destinato a suscitare, e per farlo con chiarezza esamineremo uno per uno gli argomenti sopra indicati, avanzati in sede giornalistica dagli estimatori preventivi del Libro nero.
Primo argomento: l’assordante silenzio. Ricordate il vecchio adagio " non c’è peggior sordo di chi non vuoi sentire "? Bene, provate ad applicarlo alla vicenda in questione. t vero o no che molti degli avvenimenti riferiti da Courtois e coautori erano già noti da decenni e che su di essi si era ampiamente scritto? Qualcuno dei nostri lettori avrà pur avuto in scaffale, negli anni Settanta, libri come Il costo umano del comunismo (il Borghese)-, opera di un pool di storici incaricati di redigere una relazione per il Senato statunitense, o I grandi processi di Mosca 1936-1938 (Rusconi), in cui il tema dei crimini comunista era ampiamente arato, e non certo da parte "fascista" (curatore del tomo edito da Rusconi era il socialdemocratico Averardi, e La grande purga dell’americano Robert Conquest era edito da Mondadori). Ricordate di aver inteso all’epoca anche solo un brutto giornalistico, la centesima parte dello strepito massmediale di questi giorni, accogliere quelle rivelazioni? Niente: solo pochi commenti "di basso profilo", come si direbbe in diplomazia. Di chi era la colpa di quei silenzio? Dell’ultrasinistra che elevava inni a Mao o del Pci non ancora in odore di strappo con l’Urss, come sostengono oggi gli eterni cantori del vittimismo retrospettivo? 0 piuttosto di quegli intellettuali che adesso rivendicano titoli di anticomunismo antemarcia ma ai tempi erano troppo impegnati ad aver paura di 9 $scopri rsi o y per dar credito, o perlomeno attenzione, a quelle opere di denuncia? E a chi serve l’odierna alzata di polveroni sulle tardive scoperte degli epigoni di Furet, se non a chi deve nascondere la coscienza sporca per quei silenzi sotto l’impeccabile uniforme di liberale-da-sempre-nemìco-di-ogni-totalitarismo?
Secondo argomento: il riequilibrio delle responsabilità. Ciò che è accaduto in Francia dopo l’uscita dell’edizione originale del Libro nero è eloquente. Nel clima intellettuale parigino, dominato dagli umori di una cricca snob e intollerante che in nome di un’astratta " ideologia dei diritti dell’uomo " nega il diritto concreto al contraddittorio e al dissenso, la denuncia del "terrore rosso" ha prodotto il più classico degli effetti boomerang. Ne è nata una polemica di inedita virulenza sull’incomparabilità tra regimi totalitari "di sinistra" (animati, a detta dei criptoapologeti, dalla " generosa utopia " della liberazione dell’uomo dalle catene del dominio di classe) e regimi totalitari "di destra" (mossi dall’odio, dalla violenza, dal razzismo, dal desiderio di sopraffazione). Questa reazione non ha nulla di stupefacente, ha illustri precedenti – non si è mai tanto celebrata la pretesa unicità e astoricità del genocidio ebraico come accade da quando hanno fatto il loro ingresso in scena coloro che ne negano l’esistenza – e potrebbe essere pienamente lecita, se non si traducesse in una guerra di scomuniche e atti di fede che allontana di parecchio l’accertamento della verità storica. Si può supporre che in Italia si registreranno, magari su un registro un po’ meno isterico, atteggiamenti simili. Quindi occorre profferire subito una messa in guardia: il battage ideologicamente orientato attorno al libro preferito da Silvio Beriusconi eroderà ulteriormente quell’atmosfera sine ira ac studio che Renzo De Felice, già un quarto di secolo fa, auspicava come condizione necessaria per far cadere il tabù eretto intorno a fenomeni quali il fascismo e il nazionalsocialismo. Né c’è da illudersì che l’interessato moralismo che impedisce di leggere quelle esperienze politiche nel loro contesto e nel loro compiuto dispiegarsi – premesse, condizioni, progetti, atti, conseguenze – sia destinato ad estendere la sua applicazione al comunismo. Come ha scritto Sergio Romano tempo addietro, " "fascista" è una parola passepartout che tutti hanno licenza dì usare; ddcomunista" è una parola brevettata e a "denominazione di origine controllata" ", per cui " nel match linguistico di fine secolo "comunista" batte "fascista" due a zero ". E più si cerca di riequilibrare i piatti della bilancia a suon di perorazioni, più lo squilibrio si accentua.
Terzo argomento: il risarcimento morale. Qui l’abbaglio dei non conformisti è totale. La polemica aperta dal Libro nero non è che un ennesimo capitolo di quel ricatto della memoria di cui abbiamo cento volte denunciato la natura strumentale. Riaprire di continuo le ferite di un secolo che muore è la tattica preferita dai promotori della nuova egemonia culturale, quella liberale, che si è innestata nel corpo malato di quella marxista con l’obiettivo di sostituirla quanto prima possibile. Basato com’è sulla pretesa che la propria visione del mondo sia l’unica attorno alla quale può essere costruita una convivenza civile di qui alla fine dei tempi, il liberalismo si alimenta del sogno di rendere etemo il presente, di rendere irreversibile il suo odierno trionfo. E per questo, da un lato si sforza – con successo — di penetrare dall’interno le aree culturali concorrenti e di svuotarle, piegandole a propria somiglianza, e dall’altro esercita su chiunque osi sfidarlo un ricatto: i contraddittori che prospettano scenari alternativi per il futuro sono tutti accusati di dissimulare la loro autentica natura e di voler riproporre qualche orrendo aspetto del passato. Chi auspica un modello postliberale, sgombro dei pesanti costi sociali imposti dalla mentalità individualistica e utilitaria o dalla tirannia dell’economia sui bisogni umani, è sistematicamente dipinto come un potenziale restauratore del Gulag o dei Lager. A queste forche caudine non si scappa: persino i I movimento verde è da qualche tempo oggetto di reiterate accuse di " ecofascismo " nel paesi in cui è più sfacciata l’offensiva normalizzatrice dei liberali (Stati Uniti, Francia, Inghilterra, Germania). t evidente perciò che le forme di anticomunismo non provviste di adeguato copyright non saranno affatto "riabilitate" dall’attuale messa sotto accusa del leninismo; anzi, la vituperazione dell’anticomunismo nazionalista, o addirittura neofascista, di chi decenni orsono si mobilitava contro le invasioni di Budapest o di Praga o a sostegno delle rivolte di Poznan e Berlino servirà a far meglio dimenticare la passività all’epoca dimostrata dagli ultrà dell’atiantismo, la cui parola d’ordine era, invariabilmente, -non intervenire e non disturbare l’ordine bipolare.
Quarto argomento: l’ostacolo alla sinistra. t quello che meno ci interessa e meno capiamo – – come è noto, noi non abbiamo alcun motivo per disistimare la sinistra meno di quanto non disistimiamo tutte le destre esistenti -, ma va preso in considerazione. Anche in questo caso, si tratta di un wishfui thinking. Non solo le denunce degli orrori sovietici, cinesi o cubani non debilitano quelle componenti della sinistra che non si sono mai identificate nel comunismo – e che in Europa sono largamente maggioritarie – @, ma offrono una sponda anche agli ex comunisti, i quali, per testimoniare più piatealmente il distacco dal passato, hanno bisogno di veder sventolare immagini grondanti sangue tratte dagli archivi dei paesi dell’Est, dell’Asia o dell’Africa, così abissalmente distanti dal loro stile borghese, pacifico e rassicurante. Più gli attuali partners di Blair e Jospin vengono inseguiti sul terreno dei ricordi – le simpatie giovanili dell’uno per Lin Piao, la molotov lanciata dall’altro nel Sessantotto -, più hanno buon gioco nel constatare l’incapacità degli avversari di confutare la loro azione odierna. Il penoso spettacolo offerto dal leader di Forza Italia che, gridando, brandiva il massiccio tomo mondadoriano come una clava dal palco di un convegno mentre hostess in divisa paramilitare distribuivano cinquemila copie del gadget agli astanti la dice lunga sull’eterogenesi dei fini a cui può condurre un approccio di questo genere.
Per questa ragione – cioè perché non intendiamo sottostare al ricatto della memoria e non abbiamo la benché minima intenzione di iscriverci al novero degli intellettuali organici del nuovo Principe – non parteciperemo all’operazione-nostalgia che gli sponsors dell’incolpevole Courtois hanno programmato, e invitiamo chi ci legge a comportarsi allo stesso modo. Il rifiuto della logica totalitaria — di qualunque segno — è tanto radicato nella nostra coscienza da non aver bisogno di alimentarsi di passioni anacronistiche e interessate: non crediamo alla perfezione di alcun modello, a partire da quello liberale, e il senso critico di cui disponiamo non fa sconti a nessuna dottrina. Ci auguriamo semplicemente che, te studiosi come Frangois Furet hanno saputo collocare nella giusta luce il passato dell’illusione comunista, altri sappiano presto demistificare un’altra illusione, non meno funesta: quella che il corso della storia possa essere fermato una volta per tutte per instaurare il regno milienario del brave new worid che i profeti dell’omologazione planetaria ci stanno preparando.
Marco Tarchi