L’indirizzo saggistico di Fini rispecchia sempre più l’affinamento del suo pensiero in una prospettiva di implacabile critica della modernità. Quello che i più descrivono come il pessimismo ipocondriaco di un solitario andrebbe letto con attenzione per rendersi conto che le basi su cui vengono screditati i paradigmi dominanti dell’economicismo, dell’industrialismo tecnoscientifico e della disumanizzazione della vita sono lucidamente inseriti in una visione della realtà disincantata ma, non per questo sprovvista di una sistematica ricerca di fonti e autori indispensabili a qualsivoglia interpretazione coerente e scientifica dei fenomeni analizzati.
Massimo Fini, Il denaro. "Sterco del demonio, Marsilio, Venezia 1998, pagg. 290, lire 29.000
Massimo Fini è un giornalista tra i più noti, non solo per le capacità professionali ma anche per l’atteggiamento anticonformista che lo rende quantomeno mai banale. Ha ormai nel suo carniere intellettuale diversi libri, scritti con due riconoscibili fonti di ispirazione: la biografia storica con Nerone, duemila anni di calunnie (1993) e Catilina. Ritratto di un uomo in rivolta (1996); la saggistica con La ragione aveva torto? (1985), Elogio della guerra (1989) e Il conformista (1990). Ed è in quest’ultima serie che si può sicuramente iscrivere sia la riedizione, ma con titolo significativamente – anche se impercettibilmente – mutato in forma assertiva, La ragione aveva torto e quest’ultimo Il denaro. "Sterco del demonio".
L’indirizzo saggistico di Fini rispecchia sempre più l’affinamento del suo pensiero in una prospettiva di implacabile critica della modernità. Quello che i più descrivono come il pessimismo ipocondriaco di un solitario andrebbe letto con attenzione per rendersi conto che le basi su cui vengono screditati i paradigmi dominanti dell’economicismo, dell’industrialismo tecnoscientifico e della disumanizzazione della vita sono lucidamente inseriti in una visione della realtà disincantata ma, non per questo sprovvista di una sistematica ricerca di fonti e autori indispensabili a qualsivoglia interpretazione coerente e scientifica dei fenomeni analizzati. Ci riferiamo in particolare ai denigratori (vedi "Il Sole 24 Ore" del 25.10.1998) che, avversi alle tesi propugnate dal nostro, tentano la via del discredito come se per proporre una opinione su un tema, nella fattispecie il denaro, si dovesse essere specialisti titolati. Ai nostri occhi è vero spesso il contrario: ormai con frequenza univoca, i cosiddetti specialisti sono sacerdoti di religioni decadenti e simoniache che non avvertono, in cattiva o buona fede, l’unilateralità del loro sapere. Tutto ciò spalancando più le porte dell’inferno reale che del "paradiso terrestre".
Fini, in quest’ultima sua fatica, fa un grosso sforzo di sintesi storica e concettuale che, unita alla scorrevolezza dello stile, rende il testo tra i migliori da lui scritti. Impropriamente si è voluto apparentare il saggio ad uno analogo di Vivianne Forrester, L’orrore economico, pubblicato in Italia da Ponte alle Grazie nel 1997. In realtà, la scrittrice progressista francese si limita a scandalizzarsi per l’immoralità dei mercati finanziari; Fini parte invece da ben più lontano e attacca l’idea stessa di denaro in quanto "puro segno", convenzione di una promessa, il credito, che è un’illusione simbolica a cui si è pregiudicato il mondo reale e la vita dell’uomo. È inutile quindi polemizzare sull’interesse o l’attività finanziaria se non si mette in discussione il denaro. Quest’ultimo si è trasformato da mezzo a fine: crediamo di maneggiarlo e invece ci manipola, crediamo di muoverlo e invece ci fa muovere, crediamo di possederlo ma, in realtà, ci possiede. Oggi, considerato nella globalità delle sue valenze, ha raggiunto una tale persuasività psicologica, culturale e sociale, unita ad un volume quantitativo stratosferico che, nel momento meno atteso, gonfiato di aspettative sempre più oniriche, imploderà con conseguenze devastanti.
Ma perché il denaro è un nulla?
Fini ci ricorda che le funzioni del denaro sono quattro: misura del valore; intermediazione nello scambio; mezzo di pagamento; deposito di ricchezza. Le prime tre sono storicamente inconfutabili, ma è assolutamente falso che il denaro sia, o rappresenti, la ricchezza. Il denaro non aumenta di un grammo la ricchezza del mondo reale, perché può acquistare unicamente ciò che già esiste, può trasferire solo la titolarità della proprietà delle cose. Può sicuramente spostare la ricchezza, ma assolutamente non esserlo. La sua qualità consiste nella quantità che si immedesima nell’indeterminatezza: la duttilità. Il denaro si presta a qualsiasi finalità, mentre tutti gli altri oggetti, incorporando in sé caratteristiche che li sostanziano, hanno scopi limitati. In pratica il denaro, con la facoltà dell’acquisto, può ridurre tutto a merce. E questo è un processo all’infinito, una spirale metafisica senza fondo. Pagando un debito con un bene in natura si chiude il cerchio. Se paghiamo con il denaro si chiude un credito che ne apre all’istante un altro.
L’attività finanziaria, per quanto potenziata quantitativamente dal modello di sviluppo tecnoscientifico, non è altro che un moltiplicatore illimitato della circolarità all’infinito del denaro. Se il denaro è una promessa, una scommessa sul futuro, sarà logico, nell’insufficienza del mercato ad offrire beni appetibili, spostare la scommessa su se stesso: acquistare con la fiducia altra fiducia, moltiplicare la ridondanza del miraggio fino ai limiti del suo esaurimento. È a quel punto che necessita lasciare il "cerino acceso" nelle mani dell’economia, portandola al baratro. Le speculazioni, i tracolli continentali, la sincope globale ci fa toccare con mano il cortocircuito innescato dall’idea stessa del denaro, moltiplicata dal palcoscenico distorto della modernità. Un fantasma virtuale proiettato nello stupore ingenuo della vita reale.
Ed è infatti solo con stupore che ci si può accostare alla distorsione del mercato finanziario internazionale. Un esempio emblematico (così simile alle convulsioni asiatiche e russe di quest’anno) è la catastrofe messicana evitata nel 1995. Dopo una serie di svalutazioni che avevano declassato il peso del 30% del suo valore, il Messico era deciso a dichiarare la bancarotta rispetto ai colossali debiti col Fondo Monetario Internazionale e la Banca Mondiale. Eventualità dolorosa ma non tragica, dato che la bancarotta è più grave per il creditore che per il debitore. Ma Banche, fondi di investimento, speculatori di tutto il pianeta avevano investito 50 miliardi di dollari in Titoli di Stato, azioni e obbligazioni messicane contando sulla ripresa economica di quel paese. Ebbene, il primo gennaio il presidente Clinton in persona annunciò che il Fmi, insieme ai governi canadese e statunitense, aveva concesso un prestito agevolato di 50 miliardi di dollari, l’aiuto finanziario più imponente dai tempi del piano Marshall. Apparentemente una follia, denaro per continuare a pagare un debito di denaro; in realtà, un provvidenziale soccorso portato alla logica speculativa che, una volta tanto, stava per bruciarsi le dita. La svalutazione del peso infatti stava portandosi seco il contemporaneo e drastico deprezzamento di dodici valute nazionali apparentemente scollegate dall’economia messicana. Non solo, il panico speculativo stava riversando sulle monete forti i capitali finanziari impegnati fuori dall’occidente, creando un tale discredito nei Paesi in via di sviluppo capace di sfociare in un crash mondiale. Secondo Hans Peter Martin e Harald Schumann, autori de La trappola della globalizzazione (Raetia), si è trattato di un salvataggio contemporaneo e complementare degli speculatori e dell’economia mondiale. Più chiaro di così…
Il libro di Fini comunque, non si limita a proiettare le conseguenze senza analizzare le cause storiche, sociali e culturali dell’ascesa del denaro e il suo accessorio esecutivo che è l’homo oeconomicus. Gli autori di riferimento per questa ricostruzione sono la garanzia dell’obiettività scientifica e interdisciplinare: Dumont, Mauss, Marx, Polanyi, Simmel, Sismondi, Sombart, Weber. Quello che risulta palesato è il momento di soglia critica nel rapporto dell’uomo col denaro rappresentato dalla Aristotelica distinzione tra produzione per l’uso e produzione per il profitto, condannando il secondo quale fattore di disgregazione poiché "non naturale all’uomo". Aristotele non negò l’evidenza del denaro e del mercato ma sostenne che dovevano rimanere elementi accessori dell’economia familiare (oikonomia) tendenzialmente autosufficiente. Se questa autosufficienza riusciamo a immaginarla più ampiamente come reciprocità comunitaria, avremo uno strumento attivo per criticare lo sviluppo dell’individualismo societario senza cadere nella retroazione psicologica di relegarsi in una improbabile e castale polis tradizionale.
Fini ci descrive una quotidianità frenetica e vuota come il suo denaro. L’uomo contemporaneo, circondato da un mondo di oggetti che mutano vorticosamente perché il loro interesse è "debole e forzato come il loro bisogno", si allontana dal proprio nucleo costitutivo. Alla deriva, straniero a se stesso, si perde – come dice Simmel – i contenuti della vita, positivi o negativi che siano, sacrificati all’astrazione del denaro. Ma è proprio questa astrazione, scettro del suo incontrastato potere, che potrebbe rivoltarglisi contro. Il giorno in cui, più o meno traumaticamente, gli uomini decidessero che il denaro non è reale e tentassero di convertire in beni tutti i loro depositi, i loro crediti, le loro azioni e le stesse monete che tintinnano nelle loro tasche, si accorgerebbero di ciò che inconsciamente temono e, forse per esorcizzare la paura della libertà, si nascondono: il denaro non esiste.
[tratto da Diorama letterario 219]