Diorama

Mensile di attualità culturali e metapolitiche diretto da Marco Tarchi

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Il secolo dell’Asia?

18 Luglio 2007 Redazione

 

 Dal numero 211 di Diorama Letterario

DOSSIER

Il secolo dell’Asia?

 

In un mondo che si va unificando economicamente mentre si frammenta politicamente, l’Asia da vent’anni sta ascendendo al vertici, grazie a una crescita eccezionalmente solida e rapida. Si tratta di un fenomeno che non ha precedenti nella storia. Nel primo stadio della rivoluzione industriale, c’erano voluti sessant’anni all’Inghilterra per raddoppiare il reddito pro capite. Hong Kong, il Giappone e adesso la Cina ci riescono ogni dieci anni. A Singapore, il reddito annuo per abitante supera quello dell’ex colonizzatore britannico. Nell’arcipelago nipponico, su un’isola meno grande della Francia, coperta per l’85% da foreste montagnose e quasi interamente sprovvista di risorse naturali, il reddito medio, fra il 1945 e il 1983, è passato da 20 ad oltre 10.000 dollari. Nel 1968, il Giappone è diventato la terza potenza economica del globo. Oggi è la seconda. Nessuno esclude che fra vent’anni possa essere diventato il numero uno.

La Cina conta un miliardo e duecento milioni di abitanti, ovvero un po’ più di un quinto dell’umanità. Essa è ormai il secondo polo di attrazione mondiale dei capitali esteri. La crescita vi è aumentata del 136% rispetto al 1990. L’agricoltura rappresenta ormai soltanto il 20% della produzione, il settore terziario è salito al 32%, il tasso di risparmio privato è valutato ad oltre il 40% del prodotto nazionale lordo, e la produzione è quadruplicata in vent’anni. Il commercio aumenta del 15% annuo, con. un’eccedenza commerciale di 16 miliardi di dollari e riserve in valute stimate in oltre 1 00 miliardi. L’ultimo grande paese comunista del mondo reinventa così il capitalismo di Stato, sotto l’autorità di un PC che ormai oggi non rappresenta null’altro che un’autorità amministrativa, ultima incarnazione dell’antica burocrazia imperiale.

Forte di quasi 60 milioni di individui sparsi in 119 paesi, la diaspora cinese offre uno spettacolo non meno sorprendente. Nell’Asia del Sud-Est, essa forma una "rete di bambù" che domina quasi tutta l’economia della regione. Il suo prodotto nazionale lordo, stimato attorno ai 675.000 miliardi di lire, supera il prodotto nazionale lordo totale del continente africano, e la consistenza dei suoi investimenti eccede quella degli investimenti americani all’estero. Si contano un milione e ottocentomila cinesi negli Stati Uniti. A Vancouver, terza città del Canada, il cinese è dal 1996 più parlato dell’inglese.

Ovviamente, il futuro non è scritto in nessun luogo, e i paesi asiatici hanno anche i loro punti deboli: in Giappone, estroversione dell’economia e invecchiamento della popolazione, in Cina distorsione drammatica tra le regioni costiere in via di rapida modernizzazione e le province centrali sprofondate nel marasma, disparità sociali, finanziamento caotico del settore agricolo, peso morto delle imprese di Stato, eccetera. Già adesso, nondimeno, la Cina appare potenzialmente l’unico paese al mondo che possa, nell’arco dei prossimi vent’anni, rivaleggiare con gli Stati Uniti. A quell’epoca, l’Asia potrebbe rappresentare da sola oltre il 50% dell’economia mondiale. Alain Peyrefitte ha reso popolare la frase di Napoleone: " Quando la Cina si sveglierà, il mondo tremerà ". Già Pascal diceva: " La Cina mi preoccupa ". Su questo punto, l’Occidente è diventato pascaliano.

I rischi di conflitto in Asia, circoscritti a Taiwan e alla Corea del Nord, appaiono oggi limitati. Un triplice ravvicinamento sembra d’altronde disegnarsi fra Washington e Pechino, fra Tokyo e Mosca, e forse tra Pechino e Tokyo. Ma tutto può essere rimesso in discussione domani. Nell’ipotesi di una forte tensione mondiale, nessuno può prevedere l’atteggiamento che la Cina e il Giappone adotterebbero nei confronti della Russia e degli Stati Uniti, tanto più che, dopo la scomparsa dell’Unione sovietica, cinesi e americani non hanno più lo stesso bisogno d’i trovare un alleato che faccia da contrappeso alla potenza russa.

Nel 1951, il generale Douglas MacArthur, comandante in capo delle forze d’occupazione americane, in Giappone, descriveva i giapponesi come persone che avevano una mentalità da bambini di dodici anni. Altri, oggi, non sono capaci, a quanto pare, di interpretare l’Estremo Oriente se non nell’ottica delle loro ossessioni: esotismo o "pericolo giallo". Gli occidentali fanno infatti una grande fatica ad interpretare l’Asia, perché non riescono a capire che si possa essere diversi da loro. Convinto dell’ "universalità" dei suoi valori specifici, l’Occidente è allergico alla differenza: o la sopprime, o ne nega l’esistenza. Oggi come ieri, continua a giudicare tutto il mondo alla luce dei propri criteri, e si indigna che non si condividano le sue convinzioni. Se prendesse sul serio la differenza, si troverebbe in effetti obbligato a riflettere criticamente su se stesso e ad interrogarsi sul cammino percorso. Eppure, se lo facesse, si accorgerebbe che l’Asia, che è così differente da ciò che è diventato, è assai meno diversa da quel che esso fu in altre epoche. E che i " valori asiatici ", per molti versi, non sono altro che i valori di qualunque società tradizionale, cioè i valori il cui progressivo sradicamento ha consentito l’emergere della modernità in Occidente; al. punto che, paradossalmente, ispirarsi a quei valori consentirebbe forse agli occidentali di ritrovare se stessi.

Leibniz, che si appassionava alla Cina, scriveva agli inizi del XVIII secolo a proposito dei cinesi: " La loro lingua, il carattere, il loro modo di vivere, i loro artefatti e manufatti, persino i loro giochi, differiscono quasi altrettanto dai nostri come se fossero gente di un altro globo ". Ma aggiunge va, è possibilissimo che " un’esatta descrizione di ciò che si pratica fra di loro ci dia lumi assai considerevoli e ben più utili, a mio avviso, della conoscenza dei riti e dei mobili dei greci e dei romani, a cui tanti sapienti si dedicano ". Nell’ottobre 1996, Guan Shijie affermava invece sul " China Daily " di Pechino: " Per il momento, gli occidentali sono accecati dal loro etnocentrismo, che ne ha dominato per secoli il modo di pensare e ha indotto in loro pregiudizi contro le culture dell’Asia. Ma verso la metà del prossimo secolo si verificherà un cambiamento fondamentale [ … ] Con il miglioramento del loro livello di vita, gli abitanti dell’Asia orientale hanno già guadagnato sicurezza. Sono stanchi di farsi tormentare dagli occidentali, che chiedono loro di modificare i valori fondamentali in cui credono, che hanno varie migliaia di anni in più dei loro e che sono condivisi da altri milioni di persone sulla Terra. Questi valori, che i paesi dell’Asia orientale hanno in comune, sono il comunitarismo, la lealtà familiare la frugalità ".

Soltanto all’inizio del XVI secolo la civiltà europea ha cominciato a superare la civiltà cinese. Non è impossibile che quest’ultima sia sul punto di prende una rivincita. Il XXI secolo sarà il secolo dell’Asia Sia che ci si basi sui dati di fatto più recenti, sia che ci si situi in una prospettiva "spengleriana" del succedersi delle culture sulla scena mondiale, una simile eventualità non ha ‘ nulla di stravagante. E no ha niente di rattristante. Le civiltà asiatiche si annoverano fra le più antiche e le più belle dell’umanità Se un domani dovessero rivelarsi portatrici dei va lori che un Occidente in declino non è più capace di incarnare, non ci sarebbe nessuna ragione per dolersene.

Robert de Herte

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