Marco Tarchi, 69 anni, è un accademico e politologo italiano, professore ordinario presso la Facoltà di Scienze Politiche dell’Università degli studi di Firenze. In gioventù, è stato Vicesegretario Nazionale del Fronte della Gioventù, il movimento giovanile del Movimento Sociale Italiano, in quota rautiana, fondatore delle riviste “La voce della fogna” e “Diorama letterario” e ideologo italiano della “Nuova Destra”, il movimento metapolitico legato a doppio filo all’esperienza della “Nouvelle Droite” francese del filosofo Alain De Benoist.
Prof. Tarchi, lei – che pure è una delle menti più brillanti della Destra italiana dal Secondo Dopoguerra ad oggi – ha “appeso gli scarpini” della militanza politica al chiodo ormai tanti anni fa per dedicarsi esclusivamente all’attività accademica. Perché, sta – per caso – “cavalcando” la sua personalissima “tigre”?
Chi la pensa così, non mi conosce granché e non ha seguito il mio percorso degli ultimi quarant’anni se non per sommi capi. In primo luogo, la mia militanza politica si è chiusa nel febbraio 1981 per volontà del Msi e di chi lo dirigeva (Giorgio Almirante), che decise di dichiararmi con un motu proprio «decaduto dall’iscrizione al partito» – la formula bizantina era dovuta al fatto che, per espellermi, essendo io membro del Comitato centrale e della Direzione nazionale, avrebbe dovuto sottoporre il mio caso al Collegio dei probiviri, dove sedevano non pochi miei estimatori. Quel provvedimento, assunto – cito – «in virtù dei poteri straordinari conferiti [al Segretario nazionale] dallo statuto», mise fini a un periodo di almeno due anni di mia personale sofferenza di fronte alla constatazione dell’inutilità dell’azione politica che il Msi conduceva ai fini della diffusione delle idee in cui credevo. Il partito era ormai diventato il feudo di una classe dirigente autoreferenziale, che mirava esclusivamente al mantenimento o alla conquista di posizioni elettive in parlamento o negli enti locali. Decisi così, assieme ad un gruppo di amici (già all’epoca chiamarsi “camerati” ci sembrava piuttosto patetico e da anni ci scherzavamo su), di intensificare l’azione metapolitica, ovvero un’opera di diffusione di idee attraverso la pubblicazione di riviste e libri e l’organizzazione di convegni, tavole rotonde, conferenze e incontri pubblici che già conducevamo da anni. Malgrado i moltissimi ostacoli incontrati – primo fra tutti un sistematico boicottaggio da parte degli ambienti missini, che temevano una inesistente concorrenza –, quell’azione non l’ho mai abbandonata. Tanto è vero che la collezione de «La voce della fogna» ha avuto due ristampe in volume (che hanno già oltrepassato le tremila copie complessive di vendita), «Diorama» sta per far uscire il numero 365 e «Trasgressioni», l’unica rivista di cultura e analisi politica non conformista di taglio scientifico, è giunta al numero 67. Quindi non cavalco tigri ma faccio tutto quel che posso per combattere lo spirito del tempo presente. L’attività di studio, insegnamento e ricerca è l’altro aspetto del mio impegno intellettuale. Mi è cara e ci tengo molto, ma la svolgo su un piano parallelo e non sovrapponibile, convinto come sono che, come ha insegnato Max Weber, per capire la politica e la società occorre analizzarle astraendosi totalmente da visioni di parte, dal riferimento pregiudiziale ai propri valori. Soltanto così si può perseguire un’autentica conoscenza dei fatti. Sui quali poi – ma solo poi – ciascuno può liberamente esprimere i propri giudizi.
Archeofà, Neofà, Postfà. Secondo lei, qual è il loro significato politico e qual è il significato politico dei loro simboli, dal fascio littorio alla fiamma, passando per asci bipenni, croci celtiche e rune varie ed eventuali? Di tutti questi qual è il più rappresentativo del nostro mondo?
Il microcosmo neofascista si è sempre innamorato della simbologia, per la tendenza di molti dei suoi componenti ad anteporre i sentimenti e le emozioni all’approccio razionale verso la realtà. Che l’uomo non sia solo ragione, mi guardo bene dal discuterlo, ma troppo spesso un atteggiamento come quello a cui ho fatto cenno porta ad estraniarsi dal mondo concreto e a travisarne logiche e manifestazioni. Non sono mai stato fra coloro che spasimavano per i simboli, anche perché mi accorgevo quotidianamente che taluni che mi trovavo accanto sapevano tutto dei significati reali o presunti di asce bipenni o croci celtiche ma non capivano quasi niente delle trasformazioni sociali e culturali che stavano investendo la vita quotidiana della popolazione a cui appartenevano. Anche le battaglie attorno all’uso della croce celtica mi apparivano esagerate. Chi ha consapevolezza dei principi a cui si richiama non ha bisogno di esternarli attraverso simboli, che in politica servono soprattutto per favorire un’identificazione istintiva, oltre la quale occorre andare.
Quel famoso Congresso del Fronte della Gioventù del 1977 fu, per lei e per tutto il nostro mondo, uno spartiacque. Come andò realmente e – secondo lei – ci furono dei precedenti e dei postcedenti simili?
Andò così: dal momento che la gestione ufficiale del Fronte della Gioventù aveva scontentato molti dei suoi militanti e quadri intermedi, un buon numero dei suoi centri provinciali si era avvicinato, nella fase precongressuale della seconda metà del 1976, alla corrente rautiana Linea Futura, di cui ero il principale esponente a livello giovanile. Il documento politico-ideologico che, integrando la mozione della corrente, redassi come proposta per il rinnovamento del Fdg, lanciata dalla federazione fiorentina o poi dalla quasi totalità di quelle toscane, raccolse l’adesione di trentasette centri provinciali e, malgrado le ire di Anderson e Cerullo (segretario e presidente del Fronte), suscitò molti altri consensi, che ci promettevano una maggioranza all’Assemblea nazionale che si sarebbe tenuta qualche mese dopo il congresso missino di gennaio. Consapevole della situazione, verso la metà di dicembre Almirante inviò Pino Romualdi ad inoltrarmi una sua proposta. Il presidente del partito, approfittando di una visita a familiari che abitavano a Firenze, venne a casa mia e mi disse che, se avessi accettato di staccarmi dal gruppo rautiano e di presentarmi in sede congressuale, con un discorso ad hoc, come candidato super partes, avrei ottenuto la segreteria nazionale del Fronte e… il posto numero 5 o 6, non ricordo bene, nella lista della circoscrizione romana per le elezioni politiche, quando si sarebbero tenute. Ammetto che quel discorso mi creò un momento di forte emozione: la proposta mi sembrava incredibile. Ma risposi subito che non me la sentivo di abbandonare coloro con cui stavo condividendo l’avventura, piuttosto entusiasmante, di Linea Futura e che, pur essendone onorato, non accettavo l’invito. Romualdi ne fu molto stupito e mi invitò a ripensarci, ma non lo feci. Questione di carattere, di sopravvalutazione delle mie successive capacità di influenza (credevo fermamente che, prima o poi, sarei riuscito a conquistare tutto l’ambiente giovanile “pensante” alle mie idee) e…, perché non dirlo?, di idiosincrasia verso gli ambienti romani. Non avevo alcuna voglia di trasferirmi a Roma, cambiare vita, sospendere gli studi – che subivano il peso del mio attivismo politico e della impossibilità di frequentare la facoltà di Scienze politiche, dove già avevo subìto aggressioni e agguati – e adeguarmi al tipo di politica “politicante” che toccavo con mano ogni volta che mi recavo alla sede nazionale di via Quattro Fontane. Il gruppo degli amici che mi erano più vicini mi dissero che ero un pazzo. Secondo il metro politico abituale, lo ero di sicuro. Ovviamente Almirante, che in varie occasioni mi aveva espresso una forte considerazione, non gradì il rifiuto e da quel momento in poi mi mise nella sua lista nera. E architettò l’espediente della lista dei sette nomi che l’Assemblea nazionale avrebbe dovuto votare per la segreteria del Fronte, riservando a sé la facoltà insindacabile di scelta del segretario in quella rosa. Al congresso missino cercammo di far passare il principio dell’elezione diretta, ma senza riuscirci. Ignazio La Russa propose una mediazione, che avrebbe ridotto la rosa a tre nomi. Accettammo e sottoscrivemmo un documento in tal senso; ma, con grande nostra sorpresa, quando La Russa salì sul palco per presentarla, il numero era salito a cinque (con una modifica apportata con inchiostro verde…!), e l’accordo cadde.
Va detto che Rauti non si spese su questo versante: avremmo voluto che inviasse in massa i delegati di Linea Futura nella commissione statuto dove la questione sarebbe stata dibattuta e sottoposta al voto, ma non lo fece. Teneva molto di più a cucire buoni rapporti con Almirante, a tal punto che la notte prima dell’Assemblea giovanile mi chiamò al telefono per deprecare il fatto che volessi mantenere la mia candidatura alla segreteria e cercare di imporre un suo fedelissimo, Nicola Cospito, al posto dell’allora presidente del Fuan Biagio Cacciola, nella terna di nomi che avremmo fatto votare in assemblea. Rifiutai, e la cosa lo rese furioso.
Il resto è cosa piuttosto nota. Sebbene Rauti avesse invitato ad astenersi dal partecipare i membri del Comitato centrale missino sotto i 35 anni a lui vicini – che erano delegati di diritto – per evitare ai candidati almirantiani una figura peggiore, che gli sarebbe stata rinfacciata, e Petronio, che presiedeva l’assemblea, avesse cercato in ogni modo di evitare la conta, la nostra terna prevalse nettamente: io ebbi 49 voti su 99 votanti, seguirono Cacciola e, a pari merito con il romualdiano Duccio Caparvi, Stefania Paternò. Fini giunse quinto con 27 voti e, sul momento, dichiarò che, vista la sconfitta, non avrebbe accettato la segreteria. Ma, come gli replicai, era chiaro che tutto era già stato deciso, e a lui sarebbe spettata la carica. La nostra era stata una prova di forza, per chiarire come la pensava il “corpo vivo” dell’organizzazione. Il giorno dopo, Almirante convocò i sette più votati e fece una scenata spettacolare (ricordo ancora le sue parole: «Avete voluto sfidare il vostro segretario. Ve ne pentirete»), annunciò la nomina di Fini e ci congedò.
Se dovesse comporre un pantheon dei cinque autori più importanti nello sviluppo della nostra cultura politica, quali sarebbero?
Se si riferisce alla cultura neofascista in generale, Giovanni Gentile e Julius Evola, peraltro più citati che letti, hanno certamente esercitato la maggiore influenza. Negli ambienti giovanili, un ruolo di primo piano spetta ad Adriano Romualdi. Aggiungerei gli esponenti del cosiddetto “romanticismo fascista” francese, Pierre Drieu La Rochelle e, più limitatamente, Robert Brasillach. Ma si tratta di una constatazione, non di una mia preferenza, e tantomeno di un pantheon della tante volte citata “grande cultura di destra”, che presenta nomi di grande qualità – Carl Schmitt, Ernst Jünger, Ezra Pound e via elencando – a cui tuttavia molti militanti preferivano, e forse preferiscono, i tanti esponenti dei diversi “fascismi sconosciuti”, meno utili per riflettere ma assai più appaganti sul piano emotivo.
Chi sono – per lei – Julius Evola e Pino Rauti?
Due personalità che hanno caratterizzato tappe importanti del mio percorso di formazione politico-culturale. Le letture evoliane mi hanno sempre suscitato reazioni complesse, non univoche: alcune delle sue analisi ed opinioni mi convincevano, altre meno, alcune altre mi respingevano. Aver letto a diciassette anni Gli uomini e le rovine e poco più tardi Rivolta contro il mondo moderno, L’arco e la clava, Cavalcare la tigre, Orientamenti mi ha forse fatto fare un’indigestione. Quando poi mi sono addentrato in altri filoni della produzione di Evola, inclusi i suoi scritti politici degli anni Cinquanta, che un militante missino di Pistoia aveva diligentemente trascritto e raccolto in una dispensa battuta a macchina che circolava di mano in mano, ho provato un distacco crescente, che si è concretizzato in una definitiva rottura a metà degli anni Settanta. Questioni di “equazione personale”, avrebbe detto lui.
La Destra – per fare uso di un’etichetta politologica un po’ manicheistica e semplicistica – è sempre stata divisa: secondo la vulgata, quello che le è sempre mancato è stata una leadership carismatica, eppure ci sono stati leader forti, riconoscibili e riconosciuti: io sono dell’idea che differenze e divergenze siano sempre state anche e soprattutto di natura ideale. Cosa ha distinto e distingue tuttora la Destra parlamentare dalle Destre extraparlamentari?
Non basterebbe un libro per rispondere in modo esauriente a questa domanda; del resto, ho affrontato in parte questo tema in vari articoli. Sbrigativamente, si potrebbe dire che a dividere è stato soprattutto un problema di strategie: battersi dentro le istituzioni per cambiarle, oppure al di fuori di esse per distruggerle e poi ricostruirle. Ma se ci si fermasse a questo punto, non si terrebbe conto del fatto che né la prima né la seconda linea strategica hanno raggiunto gli obiettivi prefissati e che sia le sconfitte sia i successi ottenuti hanno modificato intenzioni e comportamenti di non pochi esponenti di entrambi i campi. A contare è stata una pluralità di fattori: dai riferimenti culturali ai modelli di riferimento, fino alle questioni di carattere individuale. Su tutto poi domina il nodo irrisolto, e variamente affrontato, del rapporto con il fascismo, a seconda dei casi mitizzato o banalizzato, il cui superamento costituisce tuttora una pietra d’inciampo, una barriera psicologica, degli ambienti che non negano un rapporto di filiazione con quella esperienza storica. Ma se si allarga la portata del significato del termine Destra a tutti gli altri soggetti che potrebbero esservi compresi, le cose si fanno molto più complicate. È uno dei tanti motivi per cui considero lo schema geografico-assiale della politica, basato sulla dicotomia Sinistra/Destra, troppo schematico ed arcaico per essere davvero utile a comprendere le dinamiche politiche del nostro tempo.
Che cos’è la “Nuova Destra” e cosa resta oggi di quella esperienza?
Con l’obbligata sintesi, si può definirla come una corrente politico-culturale a vocazione metapolitica che si è sforzata di far evolvere, in Francia come in Italia ed in molti altri paesi, gli ambienti neofascisti verso nuove sintesi di pensiero più adatte alla nostra epoca ed in grado non di rifiutare in blocco la modernità, ma di esplorarne altre possibili declinazioni. Chi vuole conoscere le idee che l’hanno animata ha a disposizione una biblioteca ormai molto ampia e in più lingue. Fra i molti testi, consiglio in particolare Storia della Nuova destra di Massimiliano Capra Casadio, edito da Clueb. Per capire gli sviluppi che la Nuova Destra ha avuto nell’arco di mezzo secolo, strumenti indispensabili sono le sue riviste: in Francia soprattutto «éléments» e «Nouvelle école», che esistono ancora (la prima si trova nelle edicole, con una formula grafica e contenutistica di grande qualità), in Italia «Elementi» (che ha avuto tre serie ma si è esaurita nei primi anni Novanta) e «Diorama», la cui collezione traccia un profilo chiaro dell’itinerario seguito dai suoi animatori. A mio avviso, la Nuova Destra ha prodotto in primo luogo una lezione di metodo – per comprendere il mondo ed intervenirvi efficacemente –, che purtroppo gli ambienti a cui essa era diretta non hanno saputo, e tuttora non sanno, apprendere. Pagandone le conseguenze.
Oggi, la Destra cerca nuove idee in un Conservatorismo di ispirazione “tory”, un Conservatorismo decisamente lontano da quello descritto da Alain De Benoist nella sua “Rivoluzione Conservatrice”. In questo contesto, quali dovrebbero essere gli orizzonti ideali del nostro mondo?
La risposta a questa domanda l’ha fornita, in oltre cinquant’anni di tenace attività di riflessione, Alain de Benoist, che Lei ha giustamente citato. La lettura delle sue opere, in grandissima parte disponibili in traduzione italiana, delinea l’orizzonte nel quale dovrebbero riconoscersi coloro che, avendo mosso i loro passi nel neo/post/fascismo per un’attrazione istintiva, devono comprendere i limiti del riferimento a modelli storici del passato e saper operare una revisione critica di ciò che in essi è stato contenuto, per affrontare la via di un’evoluzione che non si esaurisca in una sterile ed opportunistica abiura.
Questa chiacchierata è stata un onore. Grazie della disponibilità e del tempo, che ha voluto dedicarci!