Diorama

Mensile di attualità culturali e metapolitiche diretto da Marco Tarchi

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La “destra fantasy”. Il sogno impossibile dei Campi Hobbit

3 Aprile 2010 Redazione

Era il 1977. La sinistra ricaricava le batterie con un movimento di protesta che voleva in qualche modo ripetere le gesta del Sessantotto. La destra – quella creativa e radicale – cercava una via alternativa alle visioni nostalgiche dell´ambiente missino. Nacquero così i “Campi Hobbit”, un´esperienza durata dal 1977 al 1980, nella quale si mescolarono musica e politica, trasgressione e tradizione. Ora un libro appena edito dalla Vallecchi (La rivoluzione impossibile, pagg. 476, euro 18) ne ripercorre le fasi salienti. A curarlo è Marco Tarchi che ha raccolto gli interventi che la stampa, di ogni colore, scrisse su quel movimento e vi ha apposto un´introduzione bella e meticolosa su ciò che allora accadde e che cosa significò. Fu la destra fantasy, quella che con un balzo dell´immaginazione unì Tolkien e Evola, Il signore degli anelli e Rivolta contro il mondo moderno. Era il 1977. La sinistra ricaricava le batterie con un movimento di protesta che voleva in qualche modo ripetere le gesta del Sessantotto. La destra – quella creativa e radicale – cercava una via alternativa alle visioni nostalgiche dell´ambiente missino. Nacquero così i “Campi Hobbit”, un´esperienza durata dal 1977 al 1980, nella quale si mescolarono musica e politica, trasgressione e tradizione. Ora un libro appena edito dalla Vallecchi (La rivoluzione impossibile, pagg. 476, euro 18) ne ripercorre le fasi salienti. A curarlo è Marco Tarchi che ha raccolto gli interventi che la stampa, di ogni colore, scrisse su quel movimento e vi ha apposto un´introduzione bella e meticolosa su ciò che allora accadde e che cosa significò.
Tarchi è un apprezzato politologo che insegna all´Università di Firenze. In anni giovanili è stato il direttore de La voce della fogna, una rivistina underground della destra radicale che cominciò a uscire nel 1974. «Durò poco meno di un decennio, fino al 1983. Arrivò a vendere 4.500 copie sebbene circolasse solo in una diffusione militante. Morì perché il Msi minacciò provvedimenti di espulsione verso chi continuava a diffonderla», dice oggi Tarchi.
Quella sua rivistina, che tra l´altro ebbe anche gli elogi di Cacciari, preparò il terreno ai Campi Hobbit. Che cosa furono?
«Pensammo a una duplice sfida. All´interno dell´ambiente missino volevamo offrire a molti giovani militanti un´alternativa ai rituali e alla mentalità nostalgici e perbenisti che imperversavano nel partito. All´esterno, l´obiettivo era uscire dall´accerchiamento dell´ultrasinistra, di cui si subiva l´egemonia generazionale. Però, non volevamo solo avversarla ma anche attraversarla criticamente e farsene contaminare».
Perché proprio Tolkien divenne il vostro vessillo?
«Il suo mondo fantastico delineava un universo ideale che avversava gli aspetti materialisti e egoisti della società in cui eravamo costretti a vivere. Fu una scoperta genuina che conservò, malgrado i suoi limiti, una carica emotiva forte».
Fantasy e politica era un buon mix?
«Per chi stava rinchiuso in un ghetto, era un carburante psicologico che consentiva di sperare in un´evasione».
Lei che ruolo ebbe nella progettazione?
«Per quanto mi riguarda, solo nel terzo Campo assunsi un ruolo più diretto. Tenga conto che due settimane prima che si aprisse il primo Campo Hobbit io avevo ottenuto il maggior numero di voti nell´assemblea nazionale del Fronte della Gioventù, battendo nettamente Gianfranco Fini, che giunse quinto nelle preferenze dei delegati. Nonostante ciò, Almirante disse che Fini era il suo preferito e che lo avrebbe nominato segretario nazionale del Fronte».
Come reagì a quel punto?
«Mi feci forte del seguito che i miei amici e io avevamo dimostrato di avere per attirare e far partecipare al Campo molti militanti insoddisfatti della gestione».
In tutto furono organizzati tre Campi Hobbit. Ci fu un´evoluzione?
«La crescita fu forte ma non lineare. Il primo fu per molti l´occasione per scoprire che un altro neofascismo, ben diverso dalla versione nostalgica del Msi di Almirante e da quella nevrotica e violenta dell´ultradestra, era possibile. Il secondo fu un disastro: imbrigliato dal Fronte di Fini che ne temeva il potenziale eretico. Il terzo, organizzato autonomamente dagli ambienti rautiani più vicini alla Nuova Destra di Alain de Benoist, fu quello meglio riuscito: dinamico, irriverente, intenso».
Al di là dei raduni sotto le tendopoli, dove discutevate di ambiente, leggevate e commentavate le imprese di Frodo, cantavate le canzoni di Battisti, che modello culturale intendevate creare?
«Se è per questo discutevamo anche del “pensiero negativo” di Cacciari. Ma la cosa rilevante era l´opposizione allo strapotere del modello consumista e all´americanizzazione della società italiana, eravamo per l´autodeterminazione dei popoli e puntavamo a influenzare dall´interno il Msi raccogliendone la parte migliore e, nel caso ciò fosse stato possibile, renderla autonoma».
Come vi collocavate rispetto alla sinistra: sia ufficiale che estrema?
«La sinistra ufficiale ci sembrava imbalsamata nei suoi riti e compromessa in un´ottica partitocratica. Nelle frange extraparlamentari, che pure ci avevano scatenato contro un abbondante decennio di “antifascismo militante”, leggevamo inquietudini e speranze che spesso ci facevano pensare di avere di fronte dei “fratelli nemici” con cui speravamo di trovare un terreno di confronto».
Vi sentivate fascisti, post-fascisti o che altro?
«Il problema allora non si poneva: credevamo di essere i pionieri di un fascismo puro, incontaminato, liberato dalle scorie della violenza, un bizzarro fascismo libertario».
C´era un po´ di confusione.
«Direi di no. Tanto è vero che di lì a poco avremmo capito che non aveva senso prendere a modello un´esperienza travolta non solo dalla sconfitta bellica ma anche dalle sue contraddizioni e insufficienze. Ricordo che parlai allora della necessità di uscire dal tunnel del fascismo e guardare al presente senza torcicolli di ogni genere».
La bomba alla stazione di Bologna mise fine alla vostra esperienza. In che modo reagiste a quell´evento tragico?
«Rafforzando la convinzione che si dovessero aumentare ancora le distanze rispetto a tutti gli ambienti dell´ultradestra propensi all´uso della violenza e che si dovessero spostare tutte le energie sul versante della cultura politica».
Che cosa è rimasto di quell´avventura?
«La sensazione che l´ambiente neofascista al quale ci rivolgevamo era, allora, immodificabile. Per questo ho scritto nel mio libro che la rivoluzione che sognavamo era impossibile. Ma molti di coloro che hanno partecipato ai Campi Hobbit hanno cocciutamente continuato sulla strada dell´evoluzione che lì era stata tracciata».
Dei nomi noti oggi al governo quanti parteciparono o appoggiarono quell´iniziativa?
«Fini e i suoi amici – Gasparri, La Russa ecc. – la videro sempre con diffidenza, soprattutto quando si resero conto di non poterla comunque volgere a proprio favore. Alemanno fu un giovane partecipante a qualcuno dei campi, ma allora non aveva alcuna responsabilità».
C´era la destra sognata e c´è la destra di oggi. È possibile un confronto?
«Una cosa si può dire: non c´è stata nessuna continuità fra l´esperienza dei Campi Hobbit e il progetto – sempre che se ne possa individuare uno coerente – della destra di governo attuale. Allora si sognava un´alternativa radicale al sistema entro il quale i postneofascisti si sono inseriti, accettandone la logica, gli interessi e le prospettive».

[tratto da La Repubblica del 2 aprile 2010]

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