Diorama

Mensile di attualità culturali e metapolitiche diretto da Marco Tarchi

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L’Asia di fronte all’occidente

18 Luglio 2007 Redazione

 

DOSSIER

 

L’Asia di fronte all’Occidente

Quello che è stato definito " il miracolo asiatico " è iniziato negli anni Cinquanta con il Giappone, prima di estendersi progressivamente, nel corso dei decenni seguenti, ai paesi dell’Asia orientale e dell’Asia del Sud-Est (Taiwan, Singapore, Hong Kong, Corea del Sud, Tailandia, Filippine, Malaysia, Indonesia). Da trent’anni, questo " miracolo " ha suscitato spiegazioni contrastanti’.

Le spiegazioni economiche insistono sulla combinazione fra una notevole forza-lavoro, un elevato livello di qualificazione, l’iniezione di un insolito ammontare di capitali e una rilevante produttività. La congiunzione di questi fattori sarebbe sufficiente a spiegare il successo dell’Asia, nel quale Paul Krugman ha recentemente visto il risultato " non dell’inspirazione, bensì della traspirazione ", ovvero, fuor di metafora, di un lavoro accanito,. Questa tesi, conforme all’analisi classica, è chiaramente insufficiente, perché non permette proprio di spiegare come mai una congiunzione di questo genere, nel dopoguerra, si sia verificata unicamente in Asia.

Gli ambienti liberali, dal canto loro, vedono nel miracolo economico asiatico la prova dell’efficienza del mercato e non mancano dí sottolineare che in Asia la protezione sociale non viene a "gravare" sulla capacità produttiva ‘delle imprese’. In questo modo si dimentica che, se la protezione sociale non ha bisogno in questi paesi di passare attraverso i poteri pubblici, ciò accade in quanto le società asiatiche non sono ancora state devastate dall’individualismo liberale, e di conseguenza le solidarietà di base possono essere assicurate dalla famiglia o dal clan.

Ciò significa dimenticare altresì che gli Stati asiatici non hanno mai esitato a ricorrere al protezionismo e che le loro politiche economiche sono state sempre fortemente segnate dal nazionalismo sia pur in contesti diversi: di capitalismo avanzato (Giappone) o in via di rapida costruzione (Corea) oppure di " socialismo di mercato " (Cina). In Giappone, sotto la direzione del celebre MITI (ministero dell’industria e del Commercio estero), creato nel 1949, il lancio di un’industria nuova, come quella dell’acciaio negli anni Cinquanta e poi quella dell’automobile negli anni Sessanta, si è regolarmente accompagnato ad una ampia serie di provvedimenti di aiuto e di protezione destinati a preparare le ditte a lanciarsi nella competizione internazionale. Nel frattempo, un organismo consultivo collegato al MITI, il Consiglio di deliberazione della struttura industrale (Sangyó kózó shingikai) formula progetti e riflessioni a lungo termine basandosi su scenari, le cosiddette " visioni " (bijion), che in quasi tutti i casi si sono rivelati giusti.

Nel caso delle "ti rì asiatiche, per promuovere le industrie strategicgeió Stato ha incoraggiato, in modo simile, la crescita di grandi conglomerati sul tipo degli zaibatsu giapponesi o dei chaebol coreani, operando una sottile mescolanza di liberoscambismo e protezionismo puntuale. Va notato d’altronde che l’Asia è quasi interamente chiusa all’immigrazione. Vi si traslocano capitali, macchine e fabbriche, ma gli uomini non passano le frontiere. A Singapore, l’impiego di stranieri è severamente tassato. I coreani sono contrari all’immigrazione, come i giapponesi.

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