Quando si parla oggi dell’Europa, i termini che si incontrano più spesso sono impotenza, paralisi, deficit democratico, opacità, architettura istituzionale incomprensibile. L’incapacità dell’Europa di impedire la guerra nell’ex Jugoslavia, che alla fine è sfociata nello spettacolo umiliante dei primi bombardamenti americani su una capitale europea dalla fine della seconda guerra mondiale è stata un’illustrazione esemplare di questa situazione. Per decenni, la costruzione europea era stata presentata come una soluzione; adesso è diventata un problema che nessuno sa più risolvere. Ieri offriva ragioni per sperare; oggi fa paura. Ci se ne aspettava un più, ora se ne teme un meno. Il progetto europeo non si accompagna ad alcuna precisa finalità. Non ha né contorni geografici né forme politiche ben caratterizzate. Manifesta un’incertezza esistenziale tanto strategica quanto identitaria, che i “sovranisti” e gli euroscettici hanno buon gioco nello sfruttare. Si è fatto notare da molto tempo che gli abbandoni di sovranità accettati dalle nazioni non sono minimamente compensati da un rafforzamento della sovranità europea. Questa assenza di trasferimenti a un attore politico europeo sovrano è particolarmente preoccupante. Fra le nazioni e l’Europa, la sovranità sembra svanire. Malgrado i suoi 450 milioni di abitanti, l’Europa resta una non-potenza, incapace di definire in modo unitario una politica estera e di difesa che corrisponda ai suoi interessi. Associando, per dirla con Régis Debray, “una struttura economica semplice e un deserto simbolico”[i], assomiglia a quel Belgio che nel 2007 è rimasto privo di governo per mesi, in attesa di un ipotetico compromesso. L’ex ministro degli Esteri francese Hubert Védrine lo ha detto senza giri di parole: “L’Europa non sa più chi è, né cosa vuole”.
I. La delusione
Quando si parla oggi dell’Europa, i termini che si incontrano più spesso sono impotenza, paralisi, deficit democratico, opacità, architettura istituzionale incomprensibile. L’incapacità dell’Europa di impedire la guerra nell’ex Jugoslavia, che alla fine è sfociata nello spettacolo umiliante dei primi bombardamenti americani su una capitale europea dalla fine della seconda guerra mondiale è stata un’illustrazione esemplare di questa situazione. Per decenni, la costruzione europea era stata presentata come una soluzione; adesso è diventata un problema che nessuno sa più risolvere. Ieri offriva ragioni per sperare; oggi fa paura. Ci se ne aspettava un più, ora se ne teme un meno. Il progetto europeo non si accompagna ad alcuna precisa finalità. Non ha né contorni geografici né forme politiche ben caratterizzate. Manifesta un’incertezza esistenziale tanto strategica quanto identitaria, che i “sovranisti” e gli euroscettici hanno buon gioco nello sfruttare. Si è fatto notare da molto tempo che gli abbandoni di sovranità accettati dalle nazioni non sono minimamente compensati da un rafforzamento della sovranità europea. Questa assenza di trasferimenti a un attore politico europeo sovrano è particolarmente preoccupante. Fra le nazioni e l’Europa, la sovranità sembra svanire. Malgrado i suoi 450 milioni di abitanti, l’Europa resta una non-potenza, incapace di definire in modo unitario una politica estera e di difesa che corrisponda ai suoi interessi. Associando, per dirla con Régis Debray, “una struttura economica semplice e un deserto simbolico”[i], assomiglia a quel Belgio che nel 2007 è rimasto privo di governo per mesi, in attesa di un ipotetico compromesso. L’ex ministro degli Esteri francese Hubert Védrine lo ha detto senza giri di parole: “L’Europa non sa più chi è, né cosa vuole”.
La “decostruzione” dell’Europa è cominciata all’inizio degli anni Novanta, con i dibattiti attorno alla ratifica del trattato di Maastricht. Da quell’epoca il futuro dell’Europa è apparso particolarmente problematico e un buon numero di europei convinti hanno iniziato a disincantarsi. Nel momento in cui la globalizzazione suscitava ulteriori timori, la gente si è accorta che “l’Europa” non garantiva un migliore potere d’acquisto, una migliore regolamentazione degli scambi commerciali nel mondo, una diminuzione delle delocalizzazioni, un regresso della criminalità, una stabilizzazione dei mercati dell’impiego o un controllo più efficace dell’immigrazione; e che, anzi, accadeva il contrario. La costruzione europea è parsa per molti versi non un rimedio alla globalizzazione, un baluardo contro una deregolamentazione generalizzata su scala planetaria, bensì come una tappa di quella stessa globalizzazione. Molti vi hanno visto “il vettore di una demolizione di tutti i valori radicati in nome di un mondialismo senza memoria e senza volto” (Jean-Michel Vernochet)[ii]. Le critiche da destra e da sinistra, le paure nazionali e le inquietudini sociali si sono quindi aggiunte le une alle altre e il disincanto ha cominciato a diffondersi negli ambienti più svariati. L’esito finale è stato il “no” al referendum del maggio 2005 sul progetto di Costituzione.
Sin dall’inizio, la costruzione dell’Europa si è di fatto svolto a discapito del buonsenso. Sono stati commessi essenzialmente quattro errori: 1) Essere partiti dall’economia e dal commercio invece di partire dalla politica e dalla cultura, immaginando che, per un effetto di rimbalzo, la cittadinanza economica si sarebbe tradotta meccanicamente in cittadinanza politica. 2) Aver voluto creare l’Europa partendo dall’alto, invece che dal basso. 3) Aver preferito un allargamento frettoloso a paesi mal preparati per entrare in Europa ad un approfondimento delle strutture politiche esistenti. 4) Non aver mai voluto prendere una posizione chiara ed impegnativa sulle frontiere dell’Europa e sulle finalità della costruzione europea.
All’indomani della seconda guerra mondiale, i promotori della costruzione europea avevano il dichiarato obiettivo di creare le condizioni per una pace duratura in un’Europa devastata nel corso del XX secolo da due sanguinose guerre civili. Quell’ambizione coincideva con il crollo di un ordine del mondo eurocentrico, ma anche con la divisione binaria dell’Europa tra una zona “libera” assoggettata all’influenza degli Stati Uniti e un’Europa centrale e orientale dominata dall’Unione sovietica. Tuttavia, vari progetti concorrenti si contrapponevano fin dagli esordi. Quello che ha prevalso, sostenuto da Jean Monnet, che poggiava sul primato dell’economia, si è imposto a discapito del progetto dei federalisti (Alexandre Marc, Robert Aron, Denis de Rougemont) e del progetto neocarolingio di un Otto di Asburgo.
Aperto il 7 maggio 1948 sotto la presidenza di Winston Churchill, il celebre Congresso dell’Aia riunì quasi 800 personalità venute da 17 paesi. Denis de Rougemont ne fu contemporaneamente il relatore della commissione culturale e il redattore della Dichiarazione finale, il famoso Messaggio agli europei, che getta in particolare le basi di quello che diventerà il Consiglio d’Europa. I lavori portano però ben presto alla ribalta due grandi correnti contrapposte: da una parte i federalisti, sostenitori di una rapida costruzione dell’Europa politica partendo dalla base e nel rispetto della diversità dei popoli, e dall’altra i “funzionalisti” o “unionisti”, secondo i quali la priorità va data a un’Europa economicamente integrata, che parteggiano per un semplice avvicinamento dei governi e dei parlamenti in un’ottica meramente amministrativa. Saranno i secondi a prevalere. È peraltro in occasione del suddetto congresso dell’Aia che Churchill crea il Movimento europeo (United European Movement), di cui diviene presidente onorario al fianco di due democristiani, Konrad Adenauer e Alcide De Gasperi, ma anche di due socialisti, il francese Léon Blum e il belga Paul-Henri Spaak. L’Unione europea dei federalisti (UEF) è stata creata invece alla fine del 1946 e sarà animata principalmente dall’ex capo del movimento “Combat”, Henry Frenay, e dall’italiano Altiero Spinelli.
Ossessionati dall’economia, i “padri fondatori” delle Comunità europee hanno volontariamente lasciato ai margini la cultura. Il loro progetto originario, quando non si ricollegava alla vecchia idea “paneuropea” di Richard N. Coudenhove-Kalergi[iii], mirava a fondere le nazioni in spazi di azione di nuovo tipo in un’ottica funzionalista[iv]. Per Jean Monnet e i suoi amici, si trattava di giungere ad una reciproca interpenetazione delle economie nazionali di un livello tale che l’unione politica sarebbe divenuta necessaria, giacché si sarebbe rivelata meno costosa della disunione. In altre parole, l’integrazione economica avrebbe dovuto essere la leva dell’unione politica.
Jean Monnet, formatosi oltre Atlantico (sin dagli anni Venti il finanziere Paul Warburg lo aveva preso sotto la propria protezione), già segretario generale aggiunto della Società delle Nazioni, scriveva a Franklin D. Roosevelt il 5 agosto 1943: “Non vi sarà pace in Europa se gli Stati si ricostituiscono sulla base di sovranità nazionali. Essi dovranno formare una federazione che ne faccia un’unità economica comune”. Monnet sarà nel 1951 il primo segretario generale della Comunità europea del carbone e dell’acciaio (CECA), embrione della futura Europa di Buxelles. È noto altresì che egli animò negli anni Sessanta un Comitato per gli Stati Uniti d’Europa, nel quale figuravano più di 130 dirigenti di partiti e sindacati dell’Europa dei Sei[v].
Se Monnet incarnava l’ispirazione economica dell’Europa, Robert Schuman ne rappresentava la parte cattolica, se non mistica, assieme al tedesco Konrad Adenauer e all’italiano Alcide De Gasperi. Inizialmente, la costruzione dell’Europa ebbe anche basi cattoliche, che non vanno sottovalutate[vi]. Il progetto di Jean Monnet ottenne d’altronde l’avallo del papa Pio XII, aprendo la strada, nel corso dei seguenti decenni, a quello che Jean-Paul Bled ha giustamente chiamato “l’impegno dei partiti democristiani nell’edificazione di una società funzionale, che ha accelerato l’avvento dell’era delle neutralizzazioni”[vii]. Dato che l’Europa per loro svolgeva “la funzione di un’ideologia sostitutiva”[viii], i partiti democristiani svolsero un ruolo essenziale negli esordi della costruzione europea. “La democrazia cristiana si assume la responsabilità fondamentale di aver fatto avallare ad una parte significativa dei cattolici, consapevolmente o meno, l’idea che il processo di costruzione europea perseguiva l’obiettivo di ristabilire l’unità spirituale perduta, se non un’‘Europa vaticana’”, scrive Christophe Réveillard[ix].
È altrettanto evidente che, sin dalla dichiarazione Schuman del 9 maggio 1950, e poi dopo la firma del trattato di Roma il 25 marzo 1957, “il primato della relazione mercantile e l’organizzazione di tutti i rapporti sociali come elementi al servizio di questo primato sono al centro del progetto europeo”[x]. Non dimentichiamo che il primo nome dell’“Europa” fu “Mercato comune”. Quell’economicismo iniziale ha, ovviamente, favorito la deriva liberale delle istituzioni, nonché la lettura essenzialmente economica delle politiche pubbliche che verrà fatta a Bruxelles. Lungi dal preparare l’avvento di un’Europa politica, l’ipertrofia dell’economia ha rapidamente comportato la spoliticizzazione, la cancellazione dei vecchi sistemi di rappresentanza, la consacrazione del potere degli esperi, nonché la messa in atto di strategie tecnocratiche che obbediscono non tanto a logiche economiche quanto a imperativi di razionalità funzionale. Dirà in seguito François Bayrou: “Un cancro rode l’Europa. Il cancro europeo è che in essa tutto sembra tecnico e più niente è politico”[xi].
Questa scelta di campo a favore dell’economia spiega ovviamente il deficit democratico, innumerevoli volte rilevato, delle istituzioni europee: ancora oggi,
Parallelamente, questo economicismo ha fatto nascere una concezione della cittadinanza svuotata della sua sostanza politica. Fondandosi sull’ideologia transnazionale dei diritti dell’uomo, indipendentemente da ogni particolare collocazione territoriale, questa cittadinanza non si definisce più per la capacità di partecipazione politica, ma per il godimento di diritti-crediti in ambito economico o sociale e per la costituzione di uno spazio giuridico unificato, mentre il ruolo dello Stato è ridotto alla sua capacità “provvidenziale” di gestione e redistribuzione dei beni collettivi. È evidente che, in quest’ultima concezione della “cittadinanza”, la differenza di situazione, in un dato paese, fra i possessori della nazionalità e gli stranieri in situazione regolare diventa impercettibile: essendo stato escluso ogni progetto politico comune, la sola residenza a titolo di consumatore od utente dà diritto alla cittadinanza[xiii].
Nel 1992, con il trattato di Maastricht, si è passati dalla Comunità europea all’Unione europea. Anche questo slittamento semantico è rivelatore: quel che unisce è meno forte di quel che è comune. Il passaggio da un termine all’altro, come ha fatto notare René Passet, “consacrava il primato degli imperativi del libero scambio su quelli del riavvicinamento dei popoli”[xiv]. Osservando che, “nella breve storia delle democrazie, i popoli democratici si sono battuti più spesso per difendere la propria patria che per difendere i valori democratici”, Dominique Schnapper ha, dal suo canto, sottolineato assai giustamente “il rischio che le società moderne si sfaldino a causa dell’indebolimento del civismo e della dimensione politica della vita quando le società sono organizzate intorno alla produzione delle ricchezze e alla ricerca del benessere degli individui”, aggiungendo che la costruzione europea, nella stessa misura in cui associa spoliticizzazione e accresciuta mercantilizzazione dei rapporti sociali, “comprende il rischio di contribuire involontariamente a spoliticizzare le società democratiche”, perché “la politica non consiste soltanto nel produrre e ridistribuire ricchezze; ha a che vedere anche con i valori e la volontà”[xv].
Jacques Chirac diceva nel suo celebre appello di Cochin, nel 1978: “Diciamo no a una Francia vassalla in un impero di mercanti”. Sappiamo quel che ne è stato. L’Europa odierna è innanzitutto l’Europa dell’economia e della logica di mercato, giacché a parere di una larga parte delle classi dirigenti liberali dovrebbe essere solo un vasto supermercato che obbedisce esclusivamente alla logica del capitale.
Il secondo errore, lo abbiamo detto prima, è consistito nel voler creare l’Europa dall’alto, ovvero partendo dalle istituzioni di Bruxelles. Come auspicavano i sostenitori del “federalismo integrale”, una sana logica avrebbe viceversa voluto che si partisse dal basso, dal quartiere e dal vicinato (luogo di apprendimento basilare della cittadinanza), salendo verso il comune, dal comune o dall’agglomerazione verso la regione (le province e i dipartimenti non corrispondono ad alcunché), dalla regione verso la nazione, dalla nazione verso l’Europa. Ciò sarebbe stato possibile applicando rigorosamente il principio di sussidiarietà. E invece questo principio, sin dal momento in cui le istanze europee se ne sono impadronite, è stato “trasformato in principio di efficacia, vale a dire in un principio giacobino, e quindi trasformato nel suo contrario”[xvi]. La sussidiarietà esige che l’autorità superiore intervenga solamente nei casi in cui l’autorità inferiore non è in grado di farlo (principio di competenza sufficiente). Nell’Europa di Bruxelles, in cui una burocrazia centralizzatrice tende a regolamentare tutto per mezzo delle sue direttive, l’autorità superiore interviene ogni volta che si reputa in grado di farlo, con il risultato che
Le rituali accuse dei sovranisti all’Europa di Bruxelles, vista come un’“Europa federale”, non devono quindi indurre in errore: con la sua tendenza ad attribuirsi d’autorità tutte le competenze, essa viceversa si costruisce su un modello in larghissima misura giacobino. Lungi dall’essere “federale”, è anzi giacobina all’estremo, dal momento che coniuga autoritarismo punitivo, centralismo e opacità.
Il terzo errore è consistito nell’allargare sconsideratamente l’Europa, quando sarebbe stato necessario prima di tutto approfondire le strutture esistenti, pur sviluppando un ampio dibattito politico in tutta Europa per tentare di costruire un consenso sulle finalità.
Beninteso: tutti gli Stati membri dell’attuale Unione europea fanno parte dell’Europa e, in quanto tali, hanno la vocazione ad integrarsi in una struttura istituzionale comune. Sarebbe stato d’altronde oppotuno ricordarlo attraverso una dichiarazione solenne quando il sistema sovietico è crollato. Questi paesi possono però integrarsi in una struttura comune solo nella misura in cui questa disponga già di istituzioni politiche integrate, provviste di regole precise che condizionino l’ingresso dei nuovi arrivati a una volontà politica a sua volta chiaramente affermata. Ed è proprio questa volontà a far difetto.
Lo si è visto in modo particolarmente evidente in occasione dell’allargamento ai paesi dell’Europa centrale, deciso nel maggio 2004 ed esteso di recente a Romania e Bulgaria. La maggior parte di questi paesi, che erano stati definitivamente accettati al vertice di Copenhagen del dicembre 2002 sulla base di criteri fissati fin dal 1993, di fatto hanno chiesto di aderire all’Unione europea soltanto per godere della protezione della NATO, come testimonia il sostegno che hanno apportato all’intervento militare americano in Iraq. Parlavano di Europa, ma sognavano solo l’America, come è stato dimostrato anche dall’acquisto da parte della Polonia, meno di quindici giorni dopo il suo ingresso nell’Unione europea, di aerei americani F16, preferiti ai Mirage francesi o agli Jas-39 Gripen svedesi[xvii]. Tenuto conto della disparità delle condizioni sociali e dei sistemi fiscali, a sua volta generatrice di distorsioni della competitività, quell’allargamento ai paesi dell’Est ha inoltre scatenato un ricatto basato sulle delocalizzazioni, a detrimento dei salariati.
Senza alcuna riforma istituzionale, senza un sufficiente impegno finanziario e senza consultazione o sostegno popolare, ci si è limitati ad offrire a dieci ex paesi del versante sovietico, convertiti di fresca data all’economia di mercato, l’ingresso in quello che essi percepivano come un paese della cuccagna, senza rendersi conto che i loro sentimenti autenticamente europei erano tanto più ridotti quanto più accentuato era il loro atlantismo. Ne sono risultati una diluizione e una perdita di efficacia che hanno rapidamente convinto tutti che un’Europa a venticinque o a trenta era semplicemente ingestibile, opinione che si è ulteriormente rafforzata a causa delle inquietudini culturali, religiose e geopolitiche legate alle prospettive di adesione della Turchia.
La verità è che, più l’allargamento si estende, più l’approfondimento diventa difficile. Un editoriale uscito su “Le Monde” il 19 gennaio 2000 parlava d’altronde a questo proposito di “due obiettivi assolutamente antinomici”. La potenza non è infatti esclusivamente una questione di taglia. Qui non solo il principio “più si è grandi, più si è forti” non vale più, ma si rovescia: più l’Unione europea si estende senza riformarsi, più la sua impotenza si accresce. Il che significa che al di là di una certa soglia l’Europa cambia natura e non può più funzionare come prima[xviii]. Come si può, in effetti, stabilire una politica comune in venticinque o in ventisette?
L’ingresso dell’Unione europea di un paese di 72 milioni di abitanti come
Quarto errore: il dibattito sulle frontiere, cioè sulla realtà geografica dell’Europa, è stato costantemente eluso, così come il dibattito sull’identità europea e sulle finalità delle sue istituzioni, e questa indeterminatezza ha continuato a caricare il progetto europeo di un’ambiguità propizia a tutte le scivolate. Il timore di parecchi eurocrati è evidentemente stato quello di richiudere lo sviluppo dell’Unione all’interno di frontiere troppo precise. Alcuni di loro, ad esempio Michel Rocard, o Dominique Strauss-Kahn che perora la causa di un’Europa “che vada dall’Artico al Sahara”[xx], non nascondono d’altro canto di vedere nell’Unione europea un insieme di molteplici civiltà promesso, come il mercato, a un’estensione indefinita. Compito dell’Unione europea sarebbe in un certo senso abolire la differenza tra l’Europa e la non-Europa, distruggendo d’un sol colpo quella che doveva esserne la ragion d’essere e qualunque possibilità di diventare un attore di primo piano sulla scena internazionale.
Le frontiere dell’Europa sono dettate tanto dalla storia quanto dalla geografia: esse si arrestano ad Ovest alle rive dell’Atlantico, a Nord alle regioni circumpolari, a Sud al Bosforo, ad Est alle porte della zona d’influenza russa. A questo contesto territoriale gli europei devono attenersi se vogliono svolgere un proprio ruolo all’interno di un mondo multipolare – il che non esclude, beninteso, la firma di accordi di partenariato privilegiato con i vicini più prossimi. Ma la mancanza di un dibattito sulle frontiere è essa stessa legata all’assenza di dibattito sulle finalità. Il fatto che l’Europa scelga di diventare una grande zona di libero scambio oppure una potenza autonoma implica infatti, per i due progetti, frontiere diverse (il primo progetto esige l’adesione della Turchia, ad esempio, mentre il secondo la esclude).
Infine, il problema capitale della lingua dell’Europa non è mai stato seriamente sollevato, quando invece si pone in maniera cruciale in un momento in cui l’Unione europea sta per contare quasi trenta Stati membri. Come può funzionare l’Europa con venticinque o trenta lingue ufficiali, mentre le Nazioni Unite ne conoscono solo cinque o sei? L’Europa deve avere una lingua che le sia propria, ma che nel contempo coesista con le altre lingue nazionali o regionali già esistenti (il multilinguismo è il futuro). Se non si decide a farlo, ovviamente sarà l’inglese a farlo, per difetto. L’apprendimento di una lingua comune richiederebbe perlomeno una generazione. Ciò fa capire quanto grande sia il ritardo già accumulato.
L’Europa, infine, ha continuato a edificarsi senza i popoli. Si potrebbe addirittura dire che la grande costante dei “facitori di Europa” è stata la loro incomprimibile diffidenza di fronte a ogni domanda di arbitrato proveniente dagli elettori, cioè dai popoli. L’Europa aspira a diventare un’entità politica, ma non è mai stata fondata politicamente[xxi]. La stessa sovranazionalità attualmente esistente non è il risultato di una deliberazione pubblica o di un processo democratico, ma di una decisione giudiziaria della Corte europea di giustizia che, in due sue sentenze fondamentali del 1963 e del
Più recentemente, si è formulato un progetto di Costituzione senza che mai venisse posto il problema del potere costituente, e quando si è consultato il popolo per via di referendum, come in Francia nel 2005, lo si è fatto, visti i risultati, per pentirsene amaramente e giurarsi che non lo si sarebbe più fatto. Una Costituzione implica un potere costituente, perché nessun potere pubblico (potestas) può sostituirsi all’autorità (auctoritas) del popolo o dei suoi rappresentanti. Un’assemblea costituente è legittima solo se si fonda sulla sovranità popolare. Ma il progetto di trattato costituzionale, scaturito dalla Convenzione sul futuro dell’Europa creata nel dicembre del 2001 al Consiglio europeo di Laeken e presieduta da Valéry Giscard d’Estaing, non solo non lo prevedeva, ma si è potuto presentarlo come “una negazione radicale di quel potere costituente che sono il o i popoli europei”[xxii].
Questo progetto non aveva d’altronde niente di una Costituzione. Una Costituzione è un documento relativamente semplice, dal volume piuttosto limitato; il progetto di trattato pesava più di 800 pagine (il che consentiva di tenerne lontani di curiosi). Una Costituzione si accontenta di fissare norme e regole, enunciare principi fondamentali e definire un contesto durevole all’interno del quale funzioneranno le istituzioni, ma non si ferma o non determina alcuna politica particolare; si colloca al di sopra del dibattito politico, che si limita a rendere possibile, perché è al popolo che spetta di decidere in materia di orientamenti e di scelte politiche. Né determina in maniera immutabile alleanze militari, che possono cambiare in funzione delle congiunture o degli eventi. Il trattato, viceversa, scolpiva nel marmo o fondeva nel bronzo ogni sorta di orientamenti in materia economica e in materia di difesa, che sperava così di rendere irreversibili sottraendoli al giudizio e alle scelte dei cittadini.
Il progetto di trattato costituzionale faceva contemporaneamente del mercato il valore supremo e l’obiettivo centrale dell’Unione, che si reputava agisse “conformemente al rispetto del principio di un’economia di mercato aperta in cui la concorrenza è libera” (art. III-177, 178, 179, 185, 246 e 279), principio che avrebbe dovuto imporsi “ai servizi pubblici di interesse economico generale” (art. III-166). Trattando delle relazioni fra l’Unione e il resto del mondo, vi si indicava che “l’Unione incoraggia l’integrazione di tutti i paesi nell’economia mondiale” (art. III-292) e contribuisce alla “soppressione progressiva delle restrizioni agli scambi internazionali” (art. III-314). Veniva inoltre precisato che “le restrizioni sia ai movimenti di capitali sia ai pagamenti fra gli Stati membri e fra gli Stati membri e i paesi terzi sono proibite” (art. III-156), nonché che gli aiuti pubblici “destinati a promuovere la cultura e la conservazione del patrimonio” sono accettabili solo quando “non alterano le condizioni degli scambi e della concorrenza” (art. III-167). Il diritto al lavoro era sostituito dalla “libertà di cercare un impiego e di lavorare” (art. II-75), e il diritto lasciava in tal modo il posto a una semplice autorizzazione. Quanto all’indipendenza della Banca centrale europea, essa ovviamente era confermata (art. I-30), proibendo perciò ogni politica monetaria. Essendo la politica di bilancio già proibita dal patto di stabilità e la politica industriale dalla proibizione di qualunque ostacolo alla concorrenza, il progetto mirava visibilmente a istituzionalizzare, fornendo loro una base giuridica inamovibile, i principi economici del liberalismo, vale a dire i principi del capitalismo dei mercati liberalizzati: lo smantellamento delle protezioni sociali e il libero gioco degli apparati dominanti del Capitale[xxiii]. Il progetto faceva pertanto più volte allusione all’“economia sociale di mercato”, espressione che faceva riferimento alle teorie degli economisti liberali tedeschi del dopoguerra, nei quali il sociale, lungi dal rappresentare un correttivo o una regolamentazione esterna al mercato, è viceversa ritenuto esserne l’effetto. Il mercato, in quest’ottica, è l’unico operatore del “progresso sociale”[xxiv].
Per quanto concerne le questioni di difesa, il progetto di trattato stipulava che, “per mettere in opera una cooperazione più stretta in materia di difesa reciproca, gli Stati membri partecipanti lavoreranno in stretta cooperazione con
Il progetto di trattato pretendeva infine di assegnare “lo stesso valore giuridico dei trattati”, vale a dire piena forza costrittiva, alla Carta dei diritti fondamentali proclamata il 7 dicembre 2000 al vertice di Nizza. Orbene: l’adozione di quell’ibrido documento rappresenterebbe una vera e propria rivoluzione giuridica.
Nel maggio-giugno 2005, il rifiuto dei francesi e degli olandesi di ratificare il progetto di trattato “che stabilisce una Costituzione per l’Europa” aveva fatto precipitare gli eurocrati nella depressione, inducendoli a spiegare subito la crisi dell’Europa con il risultato dei referendum – invece di capire che, viceversa, all’origine di quel risultato vi era il cattivo funzionamento delle istituzioni europee[xxvi].
È vero che l’eterogeneità del “no” francese al referendum sull’Europa, causa principale del suo successo (risultato dell’addizione di motivi di rifiuto assai diversi), lo rende anche di difficile interpretazione. Il “no” ha raggruppato tanto sovranisti ostili ad ogni forma di unificazione politica dell’Europa, che consideravano antinomica a una sovranità nazionale sacralizzata, quanto eurofili convinti ma non disposti ad adeguarsi ai principi del liberalismo consacrati dal trattato, i quali speravano di provocare uno “choc salutare” imponendo un colpo di freno a una folle fuga in avanti, senza dimenticare chi temeva il possibile ingresso della Turchia nell’Unione (o, più generalmente, il suo allargamento sconsiderato), il deteriorarsi della situazione dell’impiego, l’aggravarsi della situazione economica, ed infine elettori (forse i più numerosi) desiderosi semplicemente di esprimere il loro cattivo umore nei confronti del governo esistente o di sanzionare la classe politica di ogni tendenza. Ma quel che colpisce ancora adesso è l’ampiezza del fossato rivelato dal voto fra i sentimenti del popolo, ostile nel 54,6% al trattato, e le posizioni dei parlamentari, che gli erano favorevoli per il 93%.
Il fatto è, in ogni caso, che quei voti negativi non sono minimamente serviti da lezione: nessuno si è accorto che bisognerebbe forse impegnarsi su un’altra via, più conforme alla volontà popolare. Gli eurocrati si sono impegnati, viceversa, a trovare il mezzo pratico per non tenere alcun conto dell’avvertimento che era stato loro lanciato. Il risultato è stato il progetto di “trattato semplificato” adottato al vertice di Lisbona, che per unico obiettivo aggirare l’opposizione al trattato costituzionale riproponendo il medesimo contenuto in un diverso involucro.
Questo progetto di trattato “semplificato”, reso pubblico il 5 ottobre 2007 con il nome di “trattato modificativo”, di cui Nicolas Sarkozy aveva già fatto adottare il principio a Bruxelles nel giugno
Neanche il riferimento alla “concorrenza libera e non falsata” viene abbandonato, dal momento che il trattato “semplificato” rimanda a un protocollo addizionale il quale stipula che “il mercato interno, così come è definito all’articolo 3 del trattato, comprende un sistema che garantisca che la concorrenza non è falsata”.
Il “trattato modificativo” doveva essere ratificato a Lisbona il 13 dicembre 2007. Nessun referendum è previsto, salvo che in Irlanda e in Danimarca, benché diversi sondaggi d’opinione abbiano indicato che il 76% dei tedeschi, il 75% dei britannici, il 72% degli italiani, il 71% dei francesi e il 65% degli spagnoli desiderano potersi pronunciare su questo testo. In Francia, con ogni evidenza questo trattato non ha altra ragion d’essere se non imporre al popolo, senza doverlo consultare, ciò che esso aveva respinto a maggioranza nel 2005[xxviii]. Il rifiuto del presidente Sarkozy di sottoporre il “trattato modificativo” a referendum e la sua decisione di farlo adottare per la sola via parlamentare hanno dunque un sentore di fellonia. Anne-Marie Le Pourhiet, professoressa alla Facoltà di giurisprudenza dell’Università di Rennes, è giunta al punto di parlare di “colpo di Stato” e di “altro tradimento”. “Quando si sa che
II. La speranza?
Malgrado le delusioni che ha provocato, la costruzione europea rimane più necessaria che mai. Perché? In primo luogo per permettere a popoli europei troppo a lungo lacerati da guerre e conflitti o rivalità d’ogni sorta di riprendere coscienza della comune appartenenza ad una medesima area di cultura e di civiltà e di assicurarsi un destino comune senza doversi mai più contrapporre. Ma anche per ragioni connesse al momento storico che stiamo vivendo.
Nell’epoca della modernità tardiva – o della postmodernità nascente –, lo Stato nazionale, entrato in crisi fin dagli anni Trenta, diventa ogni giorno più obsoleto, mentre i fenomeni transnazionali continuano ad accrescersi. Non è che lo Stato abbia perso tutti i suoi poteri (in certi ambiti, come la sicurezza, tende al contrario ad aumentarli di continuo attraverso le regolamentazioni), ma ha smesso di produrre socialità e non può più far fronte ad imprese che oggigiorno si estendono a livello planetario. In un universo dominato dall’incertezza e dai rischi globali, nessun paese può sperare di venire a capo da solo dei problemi che lo riguardano. Per dirla altrimenti, “gli Stati nazionali – forti o deboli che siano – non sono più le entità primarie che consentono di risolvere i problemi nazionali”[xxx]. In queste condizioni, l’unico interrogativo che si pone è “capire se gli europei vogliono oppure non continuare a svolgere un ruolo nella storia”[xxxi] o sono già rassegnati a diventare oggetto della storia degli altri.
Una delle ragioni profonde della crisi della costruzione europea consiste nel fatto che nessuno appare capace di risponde alla domanda “che cos’è l’Europa?”. Eppure le risposte non mancano; nella maggior parte, però, sono convenzionali e nessuna trova tutti concordi. Orbene: la risposta alla domanda “che cos’è l’Europa?” condiziona la risposta ad un’altra domanda: “cosa deve essere?”.
Tutti sanno bene, infatti, che non vi è alcuna comune misura fra un’Europa che cerchi di costituirsi come una potenza politica autonoma, con frontiere chiaramente definite e istituzioni politiche comuni che funzionino democraticamente, e un’Europa che non sarebbe altro che uno spazio di libero scambio aperto ai “grandi orizzonti”, destinato a diluirsi in uno spazio illimitato, in larga misura spoliticizzato o neutralizzato e funzionante solo sulla base di meccanismi decisionali tecnocratici e intergovernativi. Tutti sanno bene anche che l’allargamento frettoloso dell’Europa e l’incertezza esistenziale che pesa oggi sulla costruzione europea non possono che favorire il secondo modello, d’ispirazione “anglosassone” o “atlantica”. Scegliere tra questi due modelli significa anche scegliere tra la politica e l’economia, la potenza della Terra e la potenza del Mare. Coloro che si occupano della costruzione europea in genere purtroppo non hanno la benché minima idea in materia di geopolitica. L’antagonismo tra le logiche terrestre e marittima sfugge loro. Non vedono per quali motivi la globalizzazione oggi obblighi a pensare in termini di continenti[xxxii].
Il generale de Gaulle aveva sin dal 1964 definito perfettamente il problema: “Ma quale Europa? Questo è il punto da discutere […] Secondo noi, francesi, occorre che l’Europa si faccia per essere europea. Un’Europa europea significa che essa esiste di per se stessa e per se stessa, ovvero che in mezzo al mondo abbia la propria politica. Orbene, è proprio questo ciò che respingono, consapevolmente o inconsapevolmente, taluni che tuttavia sostengono di volere che essa si realizzi. In fondo, il fatto che l’Europa, non avendo una politica, resterebbe assoggettata a quella che le verrebbe dall’altra sponda dell’Atlantico pare loro, ancora oggi, normale e soddisfacente”. Già tre anni prima, aveva detto: “L’Europa integrata in cui non vi fosse politica si metterebbe a dipendere da qualcuno di fuori, che invece ne avrebbe una”.
Anche François Bayrou ha ben riassunto la situazione: “Sin dal primo giorno della costruzione europea, due modelli sono in guerra. Il modello britannico, quello di una zona di libero scambio, senza altri scopi al di fuori di quello economico, ornato, per sembrare bello, dell’apparenza di una concertazione governativa, e il nostro modello, il modello franco-tedesco, di una potenza politica in formazione. Il dissolversi della volontà europea dà la vittoria al modello della zona di libero scambio”[xxxiii].
L’Europa è prima di tutto forte di ciò che l’ha fatta, ma la sua storia è tutto fuorché una storia semplice. È la storia di una serie di notevoli trasformazioni interne e di apporti successivi che si sono trapiantati, più o meno felicemente, su un’entità la cui eredità fondamentale deriva nel contempo da una fonte autoctona, le culture latine, greche, celtiche, germaniche e slave dell’Antichità precristiana, e da una fonte importata da lunga data, il cristianesimo. Ciò fa capire il carattere complesso dell’Europa e il carattere illusorio di ogni atteggiamento che miri a ridurla ad una soltanto di queste componenti a detrimento delle altre. A seconda dei gusti e delle convinzioni, ovviamente si potrà sempre privilegiare questa o quella di tali componenti, questa o quell’epoca, questo o quel luogo. In realtà, non è sbagliato dire che da duemila anni a questa parte la storia dell’Europa è una storia contraddittoria, e riconoscere che “ciò che lacera il Vecchio continente in conflitti intestini è anche ciò che ne costituisce la singolarità storica e l’identità collettiva”[xxxiv].
Questo significa che non bisogna sottovalutare, come sono portati a fare certi sostenitori di un’Europa ideale, le profonde diversità del continente europeo. Tra il finlandese e il napolitano, l’abitante du Dublino e quello di Dubrovnik, i riferimenti non sono gli stessi, la mentalità non è la stessa e la comprensione non è scontata. Questo significa inoltre che non si può definire l’Europa facendo unicamente riferimento al suo passato, cioè alla sua storia empirica, così come non si può fare tabula rasa di quel passato. Prendere in considerazione soltanto la “memoria” storica significa dar prova di un modo di pensare antistorico, nella misura in cui la storia include il passato ma non si riduce ad esso, e per giunta è indissociabile dall’interpretazione che essa ne dà. Infine, come ogni realtà collettiva, l’Europa ovviamente ha delle fondamenta etniche, ma non è un progetto etnico: l’Europa non ha vocazione a radunare tutti gli individui o tutti i popoli di origine europea che vivono oggi nel mondo, ma ad offrire un contesto istituzionale comune agli abitanti del continente europeo. Qui l’aspetto geografico, e dunque anche geopolitico, è determinante.
Chi sogna un’Europa senza frontiere coltiva evidentemente l’ambizione di vedervisi gradualmente integrare tutti i paesi vicini, in attesa dei paesi lontani. In quest’ottica, “l’Europa” non è più altro che l’abbozzo di una Repubblica universale o di uno Stato mondiale. I sostenitori di un progetto di questo tipo svolgono in genere le proprie argomentazioni partendo dai “valori universali”: all’Europa apparterrebbero tutti i paesi che rispettano i “valori universali” che essa ha inventato nel corso della sua storia, cioè potenzialmente il mondo intero. Vale la pena soffermarsi su questo punto.
È un dato di fatto che l’Europa, sin dalle origini, si è sforzata di concettualizzare l’universale, ha preteso di essere, con le migliori e le peggiori intenzioni, una “civiltà dell’universale”, in primo luogo attraverso il concetto di obiettività. Aporia maggiore: l’Europa è l’unica ad aver voluto pensare l’universale, ma l’universale, quando non è la semplice maschera di un inconfessato etnocentrismo, è anche ciò che la pone di fronte al rischio di non sapere più quel che è. Da questa aporia è possibile uscire solo sottolineando che “civiltà dell’universale” e “civiltà universale” non sono sinonimi. Secondo un bel detto spesso citato, l’universale, nel senso migliore del termine, è “il locale meno le mura”.
L’ideologia dominante ignora proprio la differenza tra “civiltà universale” e “civiltà dell’universale”. Per disposizione dei suoi rappresentanti, l’E uropa è stata condannata all’ignoranza di sé – e al “pentimento” per ciò che è ancora autorizzata a ricordare –, mentre la religione dei diritti dell’uomo universalizzerebbe l’idea del Medesimo. Un umanesimo privo di orizzonte si è così assegnato il ruolo di giudice della storia, facendo dell’indistinzione l’ideale redentore e celebrando di continuo il processo all’appartenenza che rende specifici. Come ha affermato Alain Finkielkraut, “ciò significava che, per non escludere più nessuno, l’Europa doveva disfarsi di se stessa, “desoriginarsi”, conservare della propria eredità esclusivamente l’universalità dei diritti dell’uomo […] Noi non siamo niente, è la condizione preventiva perché non siamo chiusi a niente e a nessuno”[xxxv]. “Vacuità sostanziale, tolleranza radicale”, ha potuto scrivere nello stesso spirito il sociologo Ulrich Beck, mentre è invece il senso di vuoto a rendere allergici a tutto. L’Europa può infatti essere accogliente verso gli altri solo nella misura in cui è cosciente del modello di civiltà che la caratterizza. L’apertura non ha senso nel vuoto; essa implica la capacità di scambio e di dialogo fra partners chiaramente situati.
Jean-Louis Bourlanges osserva che si “è preteso di “costruire l’Europa” sulla base del riconoscimento di valori universali – la pace, la libertà, la democrazia, i diritti della persona – e non dell’aggregazione e della sintesi delle particolarità geografiche, storiche e culturali proprie dei differenti popoli del Vecchio Continente […] Quel che definisce l’europeo degli ultimi cinquant’anni è la sua volontà di sfuggire alla propria condizione storica per accedere alla condizione umana”[xxxvi]. Ma, aggiunge, “l’Europa non è tanto la terra di coloro che praticano la democrazia, quanto la terra di coloro che l’hanno inventata”[xxxvii]. Ed ancora: “Essere europeo significa ereditare una storia e condividere attraverso quel lascito ricevuto e rivendicato una certa maniera di vivere, di pensare e di sentire la propria relazione con la politica”[xxxviii]. Questo lascito non deve certamente essere considerato un’essenza, un deposito intangibile che si trasmette in forma identica di generazione in generazione, bensì una sostanza complessa, associata ad una maniera specifica di trasformare se stessi, nonché a una capacità permanente di narrarsi[xxxix].
L’identità europea non esclude i valori universali, ma può fondarsi su di essi. Se l’Europa ha come esclusiva vocazione affermare “valori universali”, la costruzione europea non è altro che l’inizio di un progetto universale. Come scrive Slavoj Zizek, “se la difesa dell’eredità europea si limita alla difesa della tradizione democratica europea, la battaglia è persa prima di cominciare”[xl]. L’Europa in realtà deve avere l’ambizione di essere nel contempo una potenza capace di difendere i propri interessi specifici, un polo regolatore in un mondo multipolare o policentrico e un progetto originale di cultura e di civiltà.
Per raggiungere questo obiettivo non si può contare sugli ambienti liberali, che hanno sì contribuito alla costruzione europea, ma in essa hanno visto soltanto una tappa in vista dell’avvento del liberoscambismo mondiale. Hanno scritto a tale proposito Ulrich Beck e Edgard Grande: “L’obiettivo del neoliberalismo globale non è la creazione di un mercato unitario europeo, bensì la liberalizzazione mondiale dell’economia. E dal momento in cui queste due dimensioni entrano in contraddizione, dal momento in cui l’Europa si trasforma in “fortezza” e viene proposto di restringere il raggio di azione del capitale, il neoliberalismo diventa antieuropeo […] La costruzione di un’architettura istituzionale in Europa non è che un mezzo, non un fine in sé: è la creazione di un’agenzia incaricata di porre in esecuzione la parola d’ordine “meno Stato””[xli].
Gli Stati Uniti non hanno mai adottato una politica diversa da questa. Al contrario: il loro atteggiamento nei confronti dell’Europa ha sempre obbedito agli stessi principi: sì a un’Europa del libero scambio, no all’emergere di un concorrente o di un rivale (un “peer competitor”) che possa dotarsi di mezzi atti a farne un attore internazionale di spicco. Come Zbigniew Brzezinski ha spiegato senza giri di parole: “Un’Europa emergente in ambito militare sarebbe un concorrente formidabile per l’America. Inevitabilmente, costituirebbe una sfida per l’egemonia americana. Un’Europa politicamente forte, che non dipendesse più militarmente dagli Stati Uniti, metterebbe per forza in discussione il dominio americano e limiterebbe la supremazia degli Stati Uniti alla regione del Pacifico”.
Ai tempi della guerra fredda, gli Stati Uniti hanno certamente incoraggiato la costruzione europea. Fra il 1949 e il
Nel 1952 è sempre Washington ad ispirare direttamente il progetto di Comunità europea di difesa (CED), che avrà il sostegno del Vaticano ma che i gollisti e i comunisti faranno fallire due anni dopo. Questo aiuto ai movimenti europeisti si colloca nella cornice della strategia del “contenimento” teorizzata fin dal 1947 dal diplomatico americano George Kennan per contrastare l’Unione sovietica. Costruire l’Europa significa allora riempire un vuoto che Stalin minaccia di riempire e di conseguenza proteggere gli Stati Uniti. Nel contempo, sotto l’egida della NATO che controllano, essi non si nascondono di volersi avvalere sul piano militare di capacità europee complementari, ma soprattutto non autonome.
Dopo il crollo del sistema sovietico e la scomparsa dell’ordine bipolare ereditato da Yalta, gli Stati Uniti si sono sforzati di rafforzare la loro posizione egemone, soprattutto con un ritorno all’uso smodato dello “hard power”. Nel contempo hanno ridefinito la missione della NATO, ormai dotata di una portata “globale” (la ristrutturazione dell’Alleanza atlantica è stata confermata nel novembre 2002 con la firma, a Praga, del secondo allargamento della NATO a beneficio dei paesi baltici, della Romania e della Bulgaria), e sfruttato i disaccordi tra la “vecchia Europa” e l’Europa centrale e orientale, ieri baluardo dell’Unione sovietica, in cui sperano di trovare nuovi alleati per accerchiare
Questa alleanza transatlantica è in realtà diventata un non-senso dopo la fine del sistema sovietico. Gli interessi europei ed americani sono strutturalmente divergenti. Dal punto di vista geopolitico, l’Europa e gli Stati Uniti rappresentano due entità, una terrestre e l’altra marittima, che non possono che scontrarsi. Sul piano militare, un disaccoppiamento all’interno della “difesa occidentale” è inevitabile. Tutti i sondaggi d’opinione mostrano che la grande maggioranza degli europei vogliono un’Europa indipendente dagli Usa[xliii]. Non si deve esitare a dirlo: l’Europa si farà solo contro gli Stati Uniti, giacché questi ultimi non accetteranno mai l’emergere di una potenza rivale.
Per il momento, l’Europa rappresenta un’innegabile potenza economica pur restando, come
Sul piano della difesa, i progressi registrati negli ultimi anni rimangono molto insufficienti. Secondo le cifre comparative fornite dalla NATO, l’importo delle spese militari della Francia ha rappresentato nel 2006 l’equivalente di 579 dollari per abitante, contro i 1436 dollari degli Stati Uniti. Quattro anni fa, Hubert Védrine evocava questa alternativa: “Europa-potenza o semplice spazio di pace, di libertà e di prosperità”[xlv]. Ma la pace, come sottolinea Dominique Schnapper, “non può essere garantita dal solo godimento della partecipazione alla produzione razionale e del consumo dei beni e dei servizi, accompagnato dall’indifferenza nei confronti del resto del mondo e dalla chiusura delle frontiere”[xlvi]. La pace può essere garantita solo dal possesso degli strumenti per farla rispettare. È quanto constata Pascal Boniface quando dichiara: “Il rifiuto della potenza per se stessi non impedisce agli altri di sviluppare politiche di potenza […] Non viviamo in un mondo ideale, ma in un mondo modellato e retto dai rapporti di forza […] Non possiamo nel contempo criticare l’onnipotenza americana e non organizzare l’Europa della sicurezza per fare in modo che essa possa essere un attore strategico autonomo sulla scena mondiale”[xlvii].
In fondo”, scribe Werner Weidenfeld, “quel che manca all’Europa per agire sulla scena politica mondiale, è non solo un centro operativo, ma soprattutto un pensiero strategico. Tutte le grandi potenze dell’Europa hanno perso la loro levatura mondiale […] Nessuno di questi Stati ha sviluppato la volontà di prendere i comandi e di compensare a livello europeo questa perdita nazionale dell’orizzonte politico mondiale. Questo deficit di pensiero strategico è il vero tallone d’Achille dell’Europa”[xlviii].
La potenza non va però concepita soltanto come potenza di fuoco (tanto più che l’Europa è portatrice di un modello di organizzazione delle relazioni internazionali ben diverso da quello degli Stati Uniti). La potenza dell’Europa è anche lo sviluppo scientifico e tecnologico, la sovranità in materia di approvvigionamento energetico, la partecipazione attiva di tutti alla cosa pubblica. È soprattutto la capacità di inventare un modo di esistenza sociale che le sia caratteristico: di fronte a un sistema di produzione e di consumo che produce una miseria simbolica generalizzata, l’Europa deve poter offrire una risposta alla crisi della civiltà capitalista[xlix].
Qui il concetto chiave è sovranità. Ma bisogna essere capaci di concepirla in modo diverso da quello degli ambienti sovranisti, dei quali abbiamo già avuto modo di criticare le posizioni su questo punto[l]. I sovranisti, seguiti dai “nazional-repubblicani”, sono a favore di una concezione bodiniana della sovranità, cioè di una sovranità indivisibile tale quale la concepisce Jean Bodin, non intesa come una sovranità in ultima istanza. Ora, è un grave errore credere che per definizione la sovranità non si divida. Essa può infatti ripartirsi senza cessare di essere sovrana. Per quanto riguarda l’Europa, solo appoggiandosi alla concezione bodiniana (o hobbesiana) della sovranità si è condotti a porre l’alternativa: o la sovranità è dalla parte degli Stati membri, oppure è dalla parte dell’Unione europea (o anche: o esistono diverse regolamentazioni nazionali, oppure esiste una regolamentazione europea). Dal punto di vista della sovranità, la costruzione europea diventa allora un gioco a somma zero. Ma in realtà la sovranità legale dello Stato nazionale non equivale più, oggi, a una sovranità materiale concreta, il che vuol dire che essa non gli consente più di svolgere concretamente i compiti che da esso ci si può attendere. Viceversa, accettando l’idea di sovranità suddivisa (o ripartita) e rinunciando alla propria parte di sovranità legale, le nazioni oggi possono sperare di ritrovare per sinergia la sovranità materiale che hanno perso[li]. L’interdipendenza, in questo senso, va al di là del semplice dualismo tra nazionale e sovranazionale.
“La questione della sovranità”, diceva molto giustamente François Bayrou, “non è la prima questione della politica. È l’unica. Possiamo o no governare il nostro destino, come cittadini e come popolo? Se la risposta è no, la democrazia è nulla e non avvenuta. […] Per esercitare la sovranità dobbiamo costruire la nostra potenza. Una sola via è disponibile, la via europea. Per ritrovare la sovranità perduta delle nazioni, bisogna costruire la sovranità europea […] Esiste un’unica via verso l’unione politica dell’Europa e la sua sovranità; è la via federale, la sola che consente di volere insieme restando differenti”[lii].
La critica sovranista secondo cui non può esserci un’Europa politicamente unita poiché non vi è un “popolo europeo” ignora il fatto che
Un tipico errore del modo di ragionare ispirato al principio dell’ontologia nazionale consiste nell’analizzare i rapporti fra la sovranazionalità e le sovranità nazionali come un gioco a somma zero (tutto ciò che sarebbe guadagnato dall’una sarebbe automaticamente perso dalle altre) invece di analizzarlo come un gioco a somma positiva, il che è possibile tenendo conto della logica di inclusione additiva e degli effetti di retroazione. Un altro errore, parallelo, è quello di credere che le competenze nazionali e sovranazionali possano essere chiaramente e stabilmente separate, quando invece sono in realtà intricate in un sistema di interazione complessa. Questo ragionamento, rendendo incapaci di cogliere le specificità del progetto europeo, impedisce anche di vedere che lo Stato nazionale è già stato trasformato dall’apparizione di una molteplicità di forme di potere transnazionale che vanno oltre sia la nazione che l’Europa, e che la costruzione di un’Europa politica potrebbe appunto essere un modo di fronteggiarle.
I sovranisti vogliono in genere ridurre la costruzione europee ad iniziative intergovernative: l’“Europa delle nazioni” (o “delle patrie”) è l’intergovernatività. Ma “l’intergovernatività è la zona di libero scambio. Le due parole sono sinonimi”[lvii]. Senza rendersene conto, opponendosi all’Europa-potenza, i sovranisti favoriscono automaticamente l’Europa del libero scambio, che pure la maggior parte di loro respingono esplicitamente. Arcaica e irreali sta, l’opposizione dei sovranisti all’Europa in nome dello Stato nazionale sfocia non nella salvaguardia delle nazioni, ma nel declino o nella stagnazione dell’Europa e al suo “sganciamento” sempre più accentuato sulla scena internazionale.
La difficoltà di analisi deriva dal fatto che l’Europa di Bruxelles rimane un oggetto istituzionale non identificato. Contrariamente a ciò che talvolta si dice, non è né una federazione sovranazionale né una confederazione intergovernativa[lviii]. E neppure è propriamente un “super-Stato”, così come non è una semplice “organizzazione internazionale”, cosicché in definitiva nessuno sa bene come definirla: rete istituzionale, forma particolare di interdipendenza transnazionale a più livelli, sovrastruttura parastatale, Stato “consociativo”, insieme di reti di governance, e così via[lix]. L’integrazione europea è stata sin dall’inizio un processo dinamico dal risultato aperto, sia verso l’interno (crescita costante delle competenze dell’Unione europea) sia verso l’esterno (allargamento non meno costante a nuovi paesi).
Da questo punto di vista, Ulrich Beck e Edgar Grande non hanno torto quanfo affermano che “l’esempio dell’Europa dimostra nel modo più chiaro possibile sino a che punto i nostri concetti politici e l’attrezzatura teorica delle scienze sociali siano diventati estranei alla realtà e inoperanti – poiché restano intrappolati nell’apparato concettuale del nazionalismo metodologico”[lx]. Ciò è particolarmente vero in Francia, dove l’Europa è sempre pensata a partire da un quadro concettuale legato al modo particolare di costruzione dello Stato nazionale. Anche altrove, molti critici dell’Europa ma anche suoi sostenitori attestano la medesima incapacità a oltrepassare mentalmente il modello dello Stato nazionale. Essi ragionano come se l’Europa dovesse necessariamente essere concepita come una nazione allargata, una “grande nazione” più vasta delle altre. I sovranisti non vogliono integrarsi in una nazione di quel genere perché non vi si riconoscono, mentre altri sognano una “nazione europea” che riproduca su più grande scala tutte le caratteristiche repubblicane e unitarie delle nazioni “classiche”[lxi].
L’Europa in realtà non ha lo scopo di cancellare le nazioni, bensì di oltrepassarle nel senso hegeliano del termine, separando la nazione dallo Stato. Le nazioni sono realtà storiche che devono essere tenute in conto, in un’ottica segnata dall’applicazione sistematica del principio di sussidiarietà, allo stesso titolo delle regioni, delle “aree-sistema” e dei territori articolati intorno alle grandi città. L’Europa deve restare anche nazionale, anche se non sarà mai esclusivamente nazionale.
Non è dunque tanto la nazione che bisogna cercare di ritrovare a livello europeo, ma è la politica che bisogna reintrodurvi. Si parla giustamente di “costruzione europea”. Ogni costruzione implica una decisione, ogni costruzione politica esige una decisione politica. Ma una decisione politica senza legittimità democratica non comporta né fiducia né obbedienza. Il che implica la creazione di istituzioni politiche europee che non siano colpite dall’attuale deficit di democrazia ma costituiscano un luogo di decisione e di regolamento dei conflitti secondo regole accettate da tutti.
Una cittadinanza postnazionale deve rimanere una cittadinanza politica (non ce n’è un’altra), che non si può svolgere e mettere alla prova se non all’interno di uno spazio pubblico organizzato a tale scopo. Per iniziare, si potrebbe far sì che i membri del Parlamento europeo, oggi non in grado di funzionare come un parlamento vero soprattutto a causa della pluralità degli spazi politici europei, si presentino alla prova del voto non su liste nazionali ma su liste composte a seconda degli orientamenti politici, affinché le elezioni “europee” perdano il significato prima di tutto nazionale che ancora oggi hanno. Ma rimediare al deficit democratico dell’Europa non vuol dire limitarsi ad accrescere i poteri del Parlamento europeo. Significa anche incoraggiare l’“europeizzazione” delle lotte sociali e ricorrere a nuove prassi di democrazia partecipativa (o “consociativa”) a tutti i livelli: azione locale, organizzazione di referendum europei di iniziativa popolare, ecc.[lxii]. Essendo lo spazio pubblico prima di tutto il luogo delle prassi sociali, si tratta di dare un contenuto concreto a una cittadinanza ancora astratta che non può ridursi ad associare individui sgombrati delle loro eredità, delle loro fedeltà e delle loro passioni.
L’obiettivo non sarebbe più, allora, realizzare l’unità dell’Europa riducendone la diversità, tramite soprattutto una regolamentazione sovranazionale omogenea, bensì far poggiare la costruzione europea sulla considerazione di questa diversità, attraverso la messa in opera di un principio di integrazione differenziata, asimmetrica, a geometria variabile. Come scrivono Beck e Grande, “la diversità non è il problema, ma la soluzione”[lxiii].
Non essendo praticabile il modello dello Stato nazionale, verso quale modello alternativo ci si può volgere? La storia dell’Europa ne suggerisce uno: quello dell’Impero. Peter Sloterdijk è uno di coloro che hanno colto l’affinità fra la costruzione europea e il modello imperiale. Ingiungendo agli europei di rompere con le “ideologie dell’assenza”, egli reputa che l’Europa sia “un teatro per le metamorfosi dell’Impero”, il che lo conduce a raccomandare un “trasferimento decisivo dell’Impero verso un’unione di Stati continentale e paneuropeo”[lxiv]. Ciò rende necessario, ovviamente, intendersi sul concetto di Impero.
L’Impero di cui qui si discute non ha naturalmente niente a che vedere con gli imperi coloniali o con gli imperialismi moderni. L’Europa di Napoleone e di Hitler non era altro che un espansionismo nazionale. Così come le “grandi potenze” (great powers) non sono imperi, ma Stati forti. Nello Stato nazionale, la nazione, nata da una presa di possesso territoriale-patrimoniale, è il risultato della semplice adesione degli individui allo Stato, giacché la loro solidarietà discende esclusivamente dalla comune appartenenza amministrativa a quello Stato. La cittadinanza in quel caso è solo una formalità amministrativa. Cittadinanza e nazionalità sono, inoltre, automaticamente sinonimi, il che pone il problema delle minoranze nazionali (linguistiche, culturali o di altro genere). L’Impero corrisponde viceversa alla personificazione giuridica e all’espressione politica di una o di molteplici comunità fondate su solidarietà naturali diverse dalla consanguineità. Cittadinanza e nazionalità sono distinte. Gli imperi non sono soltanto Stati più grandi o più estesi degli altri. I veri imperi sono sempre plurinazionali. “Riuniscono più etnie, più comunità, più culture, un tempo separate, sempre distinte”[lxv].
L’Impero organizza i rapporti di potere in una maniera del tutto diversa dallo Stato nazionale, nella misura in cui la forma di dominio che incarna “mira costantemente a dominare dei non-dominati”[lxvi], appoggiandosi non tanto al potere gerarchico del comando quanto sul plusvalore politico apportato dalla cooperazione delle differenti entità politiche che ingloba. Lo Stato nazionale moderno mira peraltro all’omogeneità delle norme e delle regolantazioni, che è garantita giuridicamente dall’eguaglianza formale dei diritti, mentre gli imperi tendono ad instaurare norme asimmetriche o differenziate in funzione delle specificità socioculturali locali. L’Impero è una modalità di gestione e di organizzazione della diversità. È proprio questo che ha fatto dire a vari autori che l’Europa può essere pensata unicamente sul modello dell’Impero, ma di un impero “post-imperialista”, adattato al nostro tempo, vale a dire privo di mire egemoniche.
Fra questi autori figurano Ulrich Beck e Edgar Grande, i cui punti di vista sono a volte completamente divergenti dai nostri (essi riducono l’identità europea al fatto che essa è portatrice di “valori universali”), ma meritano comunque di essere esaminati. Beck e Grande si pronunciano nettamente a favore di un “impero europeo”, pur affermando che l’Europa deve dotarsi di una nuova identità di tipo “cosmopolita”[lxvii]. Dato che il termine potrebbe agevolmente servire da respingente, bisogna precisare che ciò che i due autori tedeschi chiamano “cosmopolitismo” non si confonde esattamente con quel che la maggior parte delle volte si intende con tale parola. Con l’espressione “Europa cosmopolita”, essi intendono designare un’Europa post-egemonica, che non si fondi sul “modello di un demos europeo o di un monopolio statale europeo in senso convenzionale – cioè sull’omogeneizzazione e l’uniformità”[lxviii]. “Il cosmopolitismo”, scrivono, “combina una stima per la differenza e l’alterità con la preoccupazione di concepire nuove forme democratiche di dominio politico al di là degli Stati nazionali”[lxix]; è dunque una forma particolare di trattamento sociale dell’alterità culturale, fondata sul principio di esclusione additiva (“et-et”). Beck e Grande badano inoltre a distinguere nettamente questo “cosmopolitismo” da tre altre forme di trattamento sociale dell’alterità: prima di tutto, ovviamente, il nazionalismo, che tende ad abolire le differenze all’interno in una prospettiva egualitaria ma ad esagerarle o renderle più rigide all’esterno in una prospettiva il più sovente gerarchica, ma anche l’universalismo, sostanziale o procedurale, che mira a stabilire un’eguaglianza formale svalutando la varietà umana a profitto di una sola ed unica norma (al di là di ciò che li distingue, gli individui e i popoli sono posti come essenzialmente identici), e il multiculturalismo postmoderno, che tende a fare della dissomiglianza un assoluto. Essi concludono che “un’Europa cosmopolita sarebbe innanzitutto un’Europa della differenza, di una differenza accettata e riconosciuta”[lxx].
Beck e Grande affermano peraltro che “l’Europa può definirsi solo sotto forma di un progetto politico”[lxxi]. Scrivono, inoltre, che “l’Europa cosmopolita deve saper resistere a due tentazioni. La prima è la seguente: l’identità etnica è un’essenza, una natura, qualcosa di dato una volta per tutte, di concreto e di obiettivo. E la tentazione inversa consiste nel partire dal principio che la differenza etnica non è altro che un’illusione”[lxxii]. Quest’ultima osservazione si colloca all’interno di una critica delle “contraddizioni tipiche” dell’“universalismo cieco ai colori”: “Da un lato, l’alterità dell’altro è superata poiché egli è considerato un eguale e trattato in quanto tale; per un altro verso, ciò finisce col far negare la realtà dell’altro – colui o colei che non vuole abbandonare la posizione dell’alterità è escluso/a […] Essere ciechi alla differenza significa perpetuare il dominio culturale”[lxxiii].
“Il concetto d’impero”, scrivono Beck e Grande, “possiede perlomeno tre carte vincenti. In primo luogo, consente di intravedere nuove forme d’integrazione politica al di là degli Stati nazionali e libera l’analisi del dominio politico dalla sua fissazione sullo Stato. Secondo punto forte: parlare d’impero apre gli occhi sull’asimmetria realmente esistente del potere degli Stati, in altre parole la fa finita con la finzione di una eguaglianza fra gli Stati sul piano della sovranità. Terzo vantaggio: storicizza la separazione tra il nazionale e l’internazionale, e rimette in discussione l’assiomatica che ancora regge il pensiero e l’azione sia in politica sia nelle scienze politiche”[lxxiv]
Qui però si pone un problema particolare. Le frontiere esterne degli imperi, contrariamente a quelle delle nazioni, sono aperte e flessibili. Tuttavia, nel caso dell’Europa, anche un impero europeo deve fissarsi delle frontiere. È un paradosso al quale Beck e Grande sono sensibili, ancorché parteggino per un’Europa “portatrice di valori universali”. Scrivono: “Ogni impero tende nel fondo di se stesso all’estensione, all’abolizione delle frontiere – e l’Impero europeo anche. Ma in quanto Impero europeo, esso non può ambire a una dimensione universale, e nel contempo deve stabilire le sue stesse frontiere. Queste frontiere possono variare con l’andar del tempo, possono essere politicamente contingenti, ma, comunque stiano le cose, bisogna che esistano”[lxxv]. Dinanzi a questa “contraddizione fondamentale”, l’imbarazzo dei due autori è palpabile.
Beck e Grande chiamano dunque “impero” quell’Europa “cosmopolita” che auspicano, sottolineando – beninteso – che si tratterebbe di un impero senza alcun germe d’imperialismo: “L’Europa è l’impero senza potenza egemonica”[lxxvi]. Un partenariato che associasse l’Unione europea alla Russia potrebbe successivamente condurre ad un’“Europa dei due imperi”[lxxvii], attendendo la messa a punto di una struttura più ampia che interessasse il continente euroasiatico nel suo insieme.
Ma ovviamente queste sono prospettive lontane. Nell’immediato, come uscire dal vicolo cieco nel quale “l’Europa” si è rinchiusa? Per il momento, sembrano esserci soltanto tre possibilità: proseguire sulla stessa strada, di cui adesso conosciamo i risultati; ripiegare sulle sole strutture nazionali, come auspicano i sovranisti, e in questo caso la “costruzione” europea si ridurrebbe a semplici iniziative intergovernative in alcuni ambiti specifici; oppure sforzarsi di dare all’Unione europea vere istituzioni politiche mettendo fine una volta per tutte all’equivoco sulle finalità. Ma se si sceglie quest’ultima opzione, ci si rende subito conto che essa – per usare un eufemismo – non trova l’unanimità degli Stati membri.
La soluzione per uscire dallo stallo potrebbe consistere nel fare un passo indietro per poi poterne fare due in avanti. Già qualche anno fa Henri de Grossouvre aveva formulato un progetto di asse Parigi-Berlino-Mosca[lxxviii], prospettiva stimolante che però sinora non ha potuto concretizzarsi, soprattutto a causa dell’ascesa al potere di Angela Merkel in Germania e di Nicolas Sarkozy in Francia. Il medesimo autore ha più di recente proposto la costituzione di un “nucleo duro”, o più esattamente di un’“avanguardia”, che raggruppi soltanto i paesi decisi a procedere sulla via dell’approfondimento delle istituzioni politiche. Questa avanguardia assocerebbe
Henri de Grossouvre sottolinea a questo proposito che la linea divisoria tra sostenitori e avversari dell’Europa-potenza attraversa tutti gli spartiacque politici abituali e che non può esserci un’avanguardia operativa senza
Anche in questo caso, l’idea è interessante. Corrisponde del resto a varie proposte avanzate in passato. Già a suo tempo Paul-Henri Spaak parlava degli Stati membri decisi ad “andare più in fretta e più lontano”. Sin dal 1975, il rapporto Tindemans sosteneva che “gli Stati che sono in grado di farlo hanno il dovere di andare avanti”. Quasi vent’anni più tardi, nel 1994, i deputati tedeschi Wolfgang Schäuble e Karl Lamers avevano lanciato l’idea di un “nucleo duro di paesi desiderosi di integrarsi e di cooperare”, senza tuttavia ottenere la benché minima risposta dal governo Balladur[lxxxi]. L’anno seguente, Hervé de Charrette evocava la possibilità che si creasse un polo “più integrato” fondato “su un gruppo di paesi raccolti attorno alla coppia franco-tedesca”. Lo stesso anni, Valéry Giscard d’Estaing, nel suo Manifesto per una nuova Europa federativa, parlava di una “Europa a volontà politiche differenziate”. Nel maggio 2000, prendendo la parola all’Università Humboldt di Berlino, Joschka Fischer, all’epoca ministro tedesco degli Esteri, aveva a sua volta perorato la causa di un “centro di gravità formato da alcuni Stati capaci […] di progredire sulla strada dell’integrazione politica” e che convenissero fra di loro di gettare “le basi di un nuovo trattato europeo”, formula alla quale
“L’incapacità di accettare gli scenari istituzionali dell’avanguardia o del nocciolo duro proposto da parecchie personalità francesi o tedesche (progetto Schäuble-Lamers, proposta Delors di federazione di Stati nazionali, proposta Fischer di centro di gravità del maggio 2000) nella quale si sono trovati, dal
In questi ultimi anni si sono tuttavia fatte sentire nuove voci che vanno nella stessa direzione. Nel 2004, Günther Hofmann ha scritto: “Non si potrà fare altrimenti: due, tre o quattro, se non cinque o sei, governi devono semplicemente prendere l’iniziativa di una politica che rifletta ciò che è specificamente “europeo””[lxxxv]. Nel 2005, anche l’economista René Passet si è pronunciato per la creazione di un “nocciolo duro comunitario europeo”: “Il ritorno allo spirito delle origini, che non può essere effettuato dal grande numero, alcune nazioni possono realizzarlo”[lxxxvi]. Dal canto suo, Jacques Delors ha riaffermato la sua posizione: “Ogni volta che si propone un passo avanti verso l’Europa politica, ci si obietta che su questi argomenti non c’è unanimità. È un motivo per perorare la causa della differenziazione […] A quando la prima iniziativa per la marcia in avanti di un gruppo di Stati membri sull’UEM, sul sociale, sull’energia? Per quanto mi riguarda, io rifiuto un’Europa che avanzi esclusivamente al ritmo dei meno impegnati e degli euroscettici”[lxxxvii].
Tecnicamente, questa possibilità non ha niente di utopico. Già da tempo, del resto, i paesi dell’Unione europea non avanzano più allo stesso passo. L’Inghilterra e
Non si tratterebbe quindi di cercare di sostituire l’Unione europea, ma di creare al suo interno, e tuttavia separatamente da essa, una struttura di approfondimento destinata a chi vuole andare oltre, essendo inteso che quella struttura, all’inizio incentrata attorno allo spazio renano, potrebbe poi estendersi a tutti gli altri paesi che accettassero di condividerne le regole. Una simile struttura non potrebbe però ovviamente limitarsi a sfruttare le possibilità di “cooperazione rafforzata” che già esistono all’interno dell’Unione, nella misura in cui quest’ultima costituisce solamente una modalità intergovernativa di intervento in ambiti molto limitati che non fanno parte delle competenze esclusive dell’Unione[lxxxviii].
Il problema è che la volontà politica continua a fare difetto, e che chi è stato incapace di mettere in opera l’asse Parigi-Berlino-Mosca a quanto pare non ha neanche l’intenzione di creare un altro “nocciolo duro”. “La creazione di un’avanguardia per costituire una massa critica”, scrive Hajnalka Vincze, “può apportare reali risposte solo se questo gruppo “pioniere” è capace di fare pienamente proprie le priorità politico-strategiche che gli toccano […] Gli Stati dell’avanguardia devono immediatamente dar prova di una politica responsabile in termini di sovranità, che non tollera né l’accecamento dell’ingenuità pacifista né i riflessi condizionati di subordinazione atlantista”[lxxxix]. Bisogna ammettere che ne siamo ancora lontani. Ma perlomeno questa è una pista da seguire.
Già Nietzsche diceva: “L’Europa si farà solo al margine della tomba”.
[i] “Le Nouvel Observateur”, 15 dicembre 2005.
[ii] Cfr. Jean-Michel Vernochet (a cura di), Manifeste pour une Europe des peuples, Editions du Rouvre, Paris 2007.
[iii] Cfr. Richard N. Coudenhove-Kalergi, Kampf um Paneuropa, 3 voll., 1925-28 ; Die europäische Nation, Deutsche Verlags-Anstalt,
[iv] Cfr. David Mitrany, A Working Peace System, Quadrangle Books,
[v] Su Jean Monnet, cfr. in paricolare Eric Branca, De Gaulle-Monnet ou le duel du siècle, in “Espoir”, 117, novembre 1998.
[vi] Cfr. Claudio Giulio Anta, Les pères de l’Europe. Sept portraits, PIE-Peter Lang, Bruxelles 2007, il quale ricorda l’itinerario di Jean Monnet, Robert Schuman, Konrad Adenauer, Alcide De Gasperi, Paul-Henri Spaak, Altiero Spinelli e Jacques Delors.
[vii] Prefazione a Bernard Dumont, Gilles Dumont e Christophe Réveillard (a cura di), La culture du refus de l’ennemi. Modérantisme et religion au seuil du XXIe siècle, Presses universitaires de
[viii] Jean-Marie Mayeur, in Des partis catholiques à la démocratie chrétienne, XIXe – XXe siècle, Armand Colin, Paris 1980, pag. 227.
[ix] Christophe Réveillard, Les catholiques et la sécularisation : le rôle des “constructeurs de l’Europe”, in Bernard Dumont, Gilles Dumont et Christophe Réveillard (a cura di), op. cit., pag. 54.
[x] Corinne Gobin, Le discours programmatique de l’Union européenne, in “La légitimation du discours économique”, numero speciale di “Sciences de la société”, Toulouse, février 2002.
[xi] François Bayrou, Pas d’Europe sans fédéralisme, in “Libération”, 14 giugno 2001.
[xii] Jean-Claude Eslin, Des propositions françaises pour l’Europe?, in “Esprit”, febbraio 2006, pag. 44. Cfr. anche Anne-Marie Le Pourhiet, Qui veut de la postdémocratie?, in “Le Monde”, 11 marzo 2005.
[xiii] Cfr. Catherine de Wenden, Citoyenneté, nationalité et immigration, Arcantère, Paris 1987; Yasemin Nuhoglu Soysal, Limits of Citizenship. Migrants and Postnational Membership in Europe,
[xiv] René Passet, Au-delà du oui et du non, in “Libération”, 15 marzo 2005, pag. 35.
[xv] Dominique Schnapper, Les nations et la citoyenneté européenne, in “Cause commune”, primavera 2007, pag. 70.
[xvi] Chantal Delsol, Quelle Europe voulons-nous?, in “Le Figaro”, 31 marzo 2005.
[xvii] “Si rendeva così platealmente palese, attraverso questo episodio simbolico, il vero significato dell’allargamento: una capitolazione senza condizioni degli europei davanti agli Stati Uniti, giacché gli ultimi ammessi si sono dimostrati i più preoccupati di fare immediato atto di sottomissione verso l’impero americano» (Jacques Julliard, L’Europe, ce machin!, in “Le Nouvel Observateur”, 9 gennaio 2003, pag. 34).
[xviii] Cfr. Werner Weidenfeld, Erweiterung ohne Ende? Europa als Stabilitätsraum strukturieren, in “Internationale Politik”, 2000, 8, pagg. 1-10.
[xix] Jean-Louis Bourlanges, Ankara et l’Union européenne : les raisons du “non”, in “Politique internazionale”, autunno 2004, pagg. 59-60. “L’adesione turca”, aggiunge Bourlanges, rallegra nel contempo gli intergovernativisti, che desiderano strangolare l’idea federale, gli atlantisti, ben decisi a silurare l’idea di un’Europa indipendente dagli Stati Uniti, i multiculturalisti, ossessionati dallo spettro di una guerra di civiltà, il grande patronato, sedotto da una triplice promessa di esportazione, delocalizzazione e immigrazione, e persino certi adepti dell’Europa-potenza, ben contenti di poter opporre i ragazzi ben piantati del Bosforo ai woodstockiani complessati del Nord Europa” (ibidem, pagg. 45-46). Va ricordato peraltro che nel corso della sua campagna elettorale Nicolas Sarkozy si era pronunciato a favore della soppressione dell’articolo 88-5 della Costituzione, adottato dai parlamentari riuniti a Congresso a Versailles nel 2005, che prevede di sottoporre a referendum ogni nuovo allargamento dell’Unione europea dopo l’adesione della Romania, della Bulgaria e della Croazia. L’ingresso della Turchia nell’Unione, al quale il presidente francese dichiara di opporsi ma che ha il sostegno del suo ministro degli Esteri, Bernard Kouchner, potrebbe così essere votato dal Parlemento senza che il popolo venga consultato.
[xx] Dominique Strauss-Kahn, in “Le Meilleur des mondes”, 2, autunno 2006.
[xxi] Cf. Christophe Réveillard, Emmanuel Dreyfus e Dominique Barjot, Penser et construire l’Europe, du traité de Versailles au traité de Maastricht (1919-1992), Sedes, Paris 2007; Nicolas Roussellier (a cura di), L’Europe des traités, de Schuman à Delors, CNRS Editions, Paris 2007.
[xxii] Philippe Forget, Le traité européen : une Constitution postiche et liberticide, in “
[xxiii] «Se si fosse voluta innalzare una politica economica al rango di dogma costituzionale […] non ci si sarebbe comportati diversamente […] Dal punto di vista economico, non è della costruzione dell’Europa che si tratta, ma del neoliberalismo elevato al rango di religione ufficiale», ha potuto scrivere René Passet, art. cit.
[xxiv] Cfr. a questo proposito Frédéric Lordon, Le mensonge social de
[xxv] Sul progetto di Carta dei diritti fondamentali, cfr. l’analisi critica dettagliata pubblicata nel 2003 nel Recueil Dalloz da Gilles Lebreton, preside onorario della Facoltà degli affari internazionali dell’Università di Le Havre, sotto il titolo La fin des droits de l’homme et du citoyen? (“Chronique”, pag. 2319).
[xxvi] Su questo punto, Laurent Cohen-Tanugi non ha torto quando scrive che “sono state le carenze economiche, sociali e politiche a provocare alla fine la bocciatura, e non l’inverso” (La fin de l’Europe?, in “Commentaire”, inverno 2005-2006, pag. 807).
[xxvii] Valéry Giscard d’Estaing, La boîte à outils du traité de Lisbonne, in “Le Monde”, 27 ottobre 2007.
[xxviii] Cfr. Paul-Marie Coûteaux, Relation d’une supercherie, in “
[xxix] Anne-Marie Le Pourhiet, testo del 10 novembre 2007. Cfr. anche Paul-Marie Coûteaux, NCE : le coup d’Etat, in “
[xxx] Ulrich Beck et Edgar Grande, Pour un empire européen, Flammarion, Paris 2007, pag. 314.
[xxxi] Jacques Delors, in “Le Monde”, 19 janvier 2000.
[xxxii] Cfr. Jordis von Lohausen, Mut zur Macht. Denken in Kontinenten, Vowinckel, Berg am See 1979. Cfr. anche Carl Schmitt, Terre et Mer. Un point de vue sur l’histoire mondiale, Labyrinthe, Paris 1985; Le Nomos de
[xxxiii] François Bayrou, art. cit.
[xxxiv] Jean-Louis Bourlanges, art. cit., pag. 50.
[xxxv] Dibattito con Paul Thibaud, in “Le Monde”, 11-12 novembre 2007, pag. 15.
[xxxvi] Jean-Louis Bourlanges, art. cit., pag. 42.
[xxxvii] Ibidem, pag. 54.
[xxxviii] Ibidem, pagg. 54-55.
[xxxix] Cfr. Alain de Benoist, Nous et les autres. Problématique de l’identité, Krisis, Paris 2006.
[xl] Slavoj Zizek, Que veut l’Europe ? Réflexions sur une nécessaire réappropriation, Climats, Castelnau-le-Lez 2005. Cfr. anche Chantal Delsol, art. cit.: «L’Europa non è quell personaggio senza qualità che crede di essere, non è l’universale in marcia al quale tutte le culture dovrebbero identificarsi […] Un’Europa che teme di darsi un nome non mi interessa».
[xli] Ulrich Beck et Edgar Grande, op. cit., pagg. 209-210 e 213.
[xlii] Il vicepresidente dell’ACUE, Walter Bedell Smith, già ambasciatore a Mosca, diventerà il capo della CIA nel 1950, finché non sarà rimpiazzato, tre anni dopo, da un altro dirigente del Comitato, Allen Dulles. Sarà ancora il denaro americano a consentire di preparare le prime riunioni del Consiglio d’Europa a Strasburgo. E a permettere, ma questo lo si saprà solo più tardi, la fondazione del Congresso per la libertà della cultura, editore in Francia della rivista “Preuves” (e in Inghilterra della rivista “Encounter”), finanziata dalla CIA attraverso
[xliii] Era, in particolare, l’opinione dell’82 % delle personne intervistate secondo il sondaggio Eurobarometro pubblicato nel giugno 2005.
[xliv] Ulrich Beck e Edgar Grande, op. cit., pag. 277.
[xlv] In “Le Monde”, 22 maggio 2003.
[xlvi] Dominique Schnapper, op. cit., pag. 71.
[xlvii] Pascal Boniface, La puissance militaire n’est pas nécessairement agressive, in “Politis”, 1 novembre 2007, pagg. 25-26.
[xlviii] Werner Weidenfeld, Das strategische Defizit – die Achillesferse Europas, tesi, München 2003, pag. 14.
[xlix] È uno dei punti richiamati da Bernard Stiegler in Constituer l’Europe, Galilée, Paris 2005, 2 voll.
[l] Cfr. Alain de Benoist, “Souverainistes” et souveraineté, in Critiques – Théoriques, L’Age d’Homme, Lausanne 2002, pagg. 469-489.
[li] Cfr. Edgar Grande e Louis W. Pauly (a cura di), Complex Sovereignty. Reconstituting Political Authority in the 21st Century,
[lii] François Bayrou, art. cit.
[liii] “Mai lo Stato ha coinciso con una preesistente unità di sangue e di lingua”, faceva notare dal suo canto José Ortega y Gasset (La révolte des masses, Stock, Paris 1961, pag. 221)
[liv] Cfr. in particolare Joseph H.H. Weiler, Ulrich R. Haltern e Franz C. Mayer, European Democracy and Its Critics, in “West European Politics”, 1995, 3, pagg. 4-39.
[lv] Dominique Schnapper assicura che soltanto nel contesto della nazione possono costruirsi e svilupparsi le prassi democratiche, perché “tutto ciò che dà una realtà concreta al principio di cittadinanza è sempre stato e rimane, per il momento, nazione” (art. cit., pag. 63). Il cittadino di Atene era cittadino di una nazione? Altrettanto discutibile è l’idea che “il principio di cittadinanza acquista un vero senso e organizza realmente le società storica solo se si colloca all’interno di istituzioni politiche e prassi sociali la cui legittimità è stata interiorizzata nel corso dei secoli” (ibidem, pag. 62). Schnapper ammette tuttavia anche che “sono stati i nazionalismi del XIX secolo e la filosofia sociale che li accompagnava a stabilire il principio secondo cui la nazionalità e la cittadinanza dovevano essere confuse”.
[lvi] Cfr. Elizabeth Meehan, Citizenship and the European Community, Sage,
[lvii] François Bayrou, art. cit.
[lviii] Malgrado le differenze formali, non è peraltro sempre semplice distinguere federazione e confederazione. La confederazione elvetica, ad esempio, si definisce repubblica federale.
[lix] Nell’ottobre 1993,
[lx] Ulrich Beck et Edgar Grande, op. cit., pag. 7.
[lxi] Con, se possible, un ancor maggiore centralismo autoritario e monolitismo giacobino, come nei sostenitori delle tesi di Jean Thiriart.
[lxii] Su questo tema, cfr. in particolare Heidrun Abromeit, Democracy in Europe. How to Legitimize Politics in a Non-State Polity, Berghahn,
[lxiii] Ulrich Beck et Edgar Grande, op. cit., pag. 341.
[lxiv] Peter Sloterdijk, Si l’Europe s’éveille. Réflexions sur le programme d’une puissance mondiale à la fin de l’ère de son absence politique, Mille et une nuits, Paris 2003.
[lxv] Maurice Duverger (a cura di), Le concept d’empire, Presses Universitaires de France, Paris 1980, pag. 10.
[lxvi] Ulrich Beck et Edgar Grande, op. cit., pag. 83.
[lxvii] Il titolo originale del loro libro è Das kosmopolitische Europa. Cfr. anche Ulrich Beck e Edgar Grande, Empire Europa: Politische Herrschaft jenseits von Bundesstaat und Staatenbund, in “Zeitschrift für Politik”, dicembre 2005, pagg. 397-420.
[lxviii] Ulrich Beck et Edgar Grande, Pour un empire européen, cit., pag. 15.
[lxix] Ibidem, pag. 24.
[lxx] Ibidem, pag. 27.
[lxxi] Ibidem, pag. 17.
[lxxii] Ibidem, pag. 258.
[lxxiii] Ibidem, pag. 260.
[lxxiv] Ibidem, pag. 82.
[lxxv] Ibidem, pag. 104. Cfr. anche pag. 127.
[lxxvi] Ibidem, pag. 55.
[lxxvii] Lucien Royer,
[lxxviii] Henri de Grossouvre, Paris-Berlin-Moscou, la voie de l’indépendance et de la paix, L’Age d’Homme, Lausanne 2002, trad. it. .
[lxxix] Henri de Grossouvre (a cura di), Pour une Europe européenne. Une avant-garde pour sortir de l’impasse, Xenia, Vevey 2007, pag. 16.
[lxxx] Ibidem, pagg. 128-133.
[lxxxi] Cfr. Jean-Louis Bourlanges, Et si on disait oui à l’Allemagne?, in “Le Monde”, 29 settembre 1994.
[lxxxii] Jacques Chirac, prendendo la parola dinanzi al Bundestag il 27 giugno 2000, si era limitato a parlare di un «gruppo pioniere» che si basasse sulle procedure di cooperazione rafforzata.
[lxxxiii] Jacques Delors, in “Le Monde”, 19 gennaio 2000
[lxxxiv] Christian Lequesne, Sur les craintes françaises d’une
[lxxxv] Günther Hofmann, Des Rudels Kern, in “Die Zeit”, 25 maggio 2004, pag. 3.
[lxxxvi] René Passet, Au-delà du oui et du non, in “Libération”, 15 marzo 2005, pag. 35.
[lxxxvii] Jacques Delors, in “Le Nouvel Observateur”, 28 giugno 2007.
[lxxxviii] Cfr. Eric Maulin, Avant-garde et institutions de l’Union européenne, in Henri de Grossouvre (a cura di), Pour une Europe européenne, cit., pagg. 47-58.
[lxxxix] Hajnalka Vincze, Avant-garde et souveraineté européenne, ibidem, pag. 32.