Diorama

Mensile di attualità culturali e metapolitiche diretto da Marco Tarchi

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Nuova destra contro Destra nuova

24 Marzo 2010 Redazione

È un dato di fatto che intorno alla metà degli anni Settanta si sviluppò nell’ambito giovanile neo-fascista (il mondo della Destra allora era questo, e nient’altro) una frattura generazionale che non si sarebbe più rimarginata. Era dovuta al fatto che per quei ventenni occorreva fare i conti con la «modernità compiuta» che la contestazione studentesca aveva contribuito a creare quanto a costume, mentalità, abitudini di chi le era coetaneo. In maniera spontanea e a volte confusa, un po’ cosciente e un po’ incoerente, quella generazione dei nati negli anni Cinquanta cominciò a teorizzare, fra riviste, incontri, convegni, un’alternativa che la portasse fuori dalle secche di un immobilismo partitico, l’allora Movimento sociale italiano, asfittico e perdente, da un estremismo giovanile fintamente rivoluzionario, assurdo e insieme criminale sul piano politico, luttuoso sul piano dei destini individuali. Hobbit/Hobbit era il titolo di un libro pubblicato all’inizio degli anni Ottanta dalla Lede, Libreria Editrice Europa. Conteneva contributi vari, riuniti dalla formula «A più mani» a indicare un curatore-autore plurimo e nascosto, ma non si svela un segreto, trent’anni dopo, a identificarne i nomi e a ripercorrerne le biografie. Marco Tarchi, allora brillante ideologo della Nuova destra e oggi professore di Scienza politica all’Università di Firenze; Umberto Croppi, all’epoca infaticabile organizzatore di eventi e al presente assessore alla Cultura del Comune di Roma; Adolfo Morganti, libraio-militante al tempo e editore affermato allo stato attuale; Federico Zamboni, alias Claudio Fossati, ieri giovanissimo critico musicale e oggi maturo critico musicale, nonché redattore della Voce del Ribelle di Massimo Fini; il disoccupato intellettuale e/o studente-attivista Francesco Bergomi, ai giorni nostri affermato dirigente d’azienda (è suo lo strepitoso intervento dal titolo «Negro», nonché la cura del Libro rosso dei confini occidentali, il giornale ciclostilato del Campo); quel povero disgraziato, sempre e comunque, del sottoscritto… Eravamo tutti sotto i trent’anni, eravamo tutti precari della vita, praticavamo tutti l’eminente dignità del provvisorio, sognavamo tutti una rivoluzione impossibile… Per spiegare quest’ultima bisogna però fare, come nel tango, qualche passo avanti e qualche passo indietro.
Per gli uni e gli altri è indispensabile questo libro, La rivoluzione impossibile, appunto, che ha per sottotitolo Dai Campi Hobbit alla Nuova destra (Vallecchi, pagg. 476, euro 18), che quell’Hobbit/Hobbit citato all’inizio recupera nella sua totalità, ma integrandolo con una ricca documentazione giornalistica (30 articoli apparsi sulla stampa del tempo), un esemplare saggio introduttivo di 80 pagine, un’altrettanto esemplare post-fazione di altre quaranta, entrambi opera del curatore, il già ricordato Marco Tarchi. In sostanza, e per la prima volta, il lettore ha a disposizione una ricostruzione-interpretazione complessiva non solo di un «come eravamo» dei tre Campi Hobbit (dove, come, quando, perché, chi c’era, chi li organizzò, chi li osteggiò…), ma anche del loro rapporto con la nascita e lo sviluppo della cosiddetta Nuova destra e con le travagliate esperienze della destra giovanile, nonché il raffronto fra quella Nuova destra e la «Destra nuova» dei giorni nostri. Unico neo, la mancanza di un indice dei nomi, da rimediare in caso di prevedibile seconda edizione.
È un dato di fatto che intorno alla metà degli anni Settanta si sviluppò nell’ambito giovanile neo-fascista (il mondo della Destra allora era questo, e nient’altro) una frattura generazionale che non si sarebbe più rimarginata. Era dovuta al fatto che per quei ventenni occorreva fare i conti con la «modernità compiuta» che la contestazione studentesca aveva contribuito a creare quanto a costume, mentalità, abitudini di chi le era coetaneo. In maniera spontanea e a volte confusa, un po’ cosciente e un po’ incoerente, quella generazione dei nati negli anni Cinquanta cominciò a teorizzare, fra riviste, incontri, convegni, un’alternativa che la portasse fuori dalle secche di un immobilismo partitico, l’allora Movimento sociale italiano, asfittico e perdente, da un estremismo giovanile fintamente rivoluzionario, assurdo e insieme criminale sul piano politico, luttuoso sul piano dei destini individuali. Si trattava di una sorta di rivoluzione antropologica per chi la faceva, in quanto significava non riconoscersi nell’immagine che di te veniva data in negativo dall’avversario, ma nemmeno nell’immagine che di sé continuava a dare quella che avrebbe dovuto essere la tua parte politica. In un pugno di anni che va dal ’74-75 all’80-81, questo fenomeno si concretizzò nella cosiddetta Nuova destra, definizione in cui l’aggettivo contava più del sostantivo: non si trattava di rifondare qualcosa, ma di provare a fare una cosa diversa, nel presupposto che le classiche categorie politologiche Destra e Sinistra avessero fatto il loro tempo e non valessero più quanto a parametri interpretativi. Era un progetto e un percorso che, per quanto «metapolitico», non poteva piacere ai vertici missini del tempo: ne metteva in discussione la legittimità, li obbligava a ripensare tattiche e strategie, li sfidava sul piano della revisione storica e ideologica. Fra ambiguità, compromessi, lacerazioni, fuoriuscite e espulsioni all’inizio degli anni Ottanta la spaccatura divenne incolmabile. Negli anni a seguire, il Msi si sarebbe baloccato con il Fascismo del Duemila per poi bere a Fiuggi l’antifascismo del Nuovo millennio e la ND avrebbe finito con il prendere atto che in un sistema e un clima politico radicalmente mutati quella sigla si rivelava ambigua e andava abbandonata.
Torniamo alla «rivoluzione impossibile». Scrive Tarchi che essa sta a indicare «il tentativo di fare della prima generazione neo-fascista nata politicamente dopo il Sessantotto il laboratorio di una trasformazione psicologica profonda, capace di redimerla dal peccato originale della volontaria estraneità al proprio tempo». In quanto tale, essa illumina e ricostruisce quel «tassello mancante delle tante ricostruzioni proposte in questi ultimi anni del “fascismo degli anni di piombo”», nel senso che rappresenta «il lato confuso e contraddittorio, ma anche luminoso e ludico, intriso di passioni e ambizioni ingenue, ma a loro modo costruttive, che fece da contraltare al versante oscuro, angosciato e incupito da impulsi cruenti e omicidi che così spesso è stato descritto come il carattere dominante dell’“arcipelago nero” di quell’epoca. Un lato che talvolta si incrociò con l’altro, vi si confuse o ne fu sopraffatto, ma riuscì a prevalere in molti militanti, che nella stagione più dura della guerra per bande nera e rossa non smarrirono né il senno né la dignità».
Resta da chiedersi se quella Nuova destra sia stata per molti versi l’incubatrice della «Destra nuova» che si agita oggi intorno all’ex Alleanza nazionale e al presidente della Camera Gianfranco Fini, o se quest’ultima ne sia stata in fondo l’inveramento. Domanda complessa, meritevole di qualche puntualizzazione. La prima è che la «modernizzazione» della ND trovava la sua ragion d’essere nell’andare oltre un campo d’appartenenza, laddove la DN in quel campo si radica e su quel campo è costretta a dialogare. Ciò la obbliga, fra l’altro, a difendere un bipolarismo artificioso che ne rende ancora più velleitaria la rivendicata vocazione contaminatoria. La seconda è che la ND si rifaceva a un solidarismo comunitario, a un anti-utilitarismo e a una critica del liberalismo di cui resta poco in una DN (italiana o straniera che sia), così come della critica all’occidentalismo e all’egemonia Usa in campo internazionale. La terza è che la ND si articolò come una società di pensiero sganciata da ogni referente politico-partitico, laddove la ragione della DN sta nell’esatto opposto: non veicola idee, ma un leader… Detto questo, ognuno poi si incubi o si inveri come gli pare. La rivoluzione impossibile è giustamente dedicata dal curatore e dall’editore a Generoso Simeone: si deve a lui infatti l’idea del primo Campo Hobbit. Generoso era tale di nome e di fatto, gli erano estranee invidie e tornaconti, era un sannita biondo, atticciato e sempre trafelato, povero come tutti quelli che la politica la fanno per passione, orgoglioso come tutti quelli che non mettono il loro dio nella carriera. È morto qualche anno fa, e con lui se n’è idealmente andata una parte della nostra giovinezza, quando si pensava che il domani ci potesse appartenere.

[tratto da il Giornale]

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