Diorama

Mensile di attualità culturali e metapolitiche diretto da Marco Tarchi

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Nuovo articolo di Roberto Zavaglia

11 Dicembre 2007 Redazione

Della Conferenza internazionale di martedì prossimo ad Annapolis, nel Maryland, rimarrà una bella foto di gruppo se la maggior parte degli Stati e delle organizzazioni invitati (oltre quaranta e c’è persino il Brasile) deciderà di intervenire. Ben poco di concreto, invece, ci si può attendere da un appuntamento che, da quando Bush l’ha annunciato, ha perso pure la sua definizione roboante per trasformarsi in una più conviviale “riunione”. Non è questione di essere pessimisti, ma non si comprende come si possa decidere qualcosa sulla questione palestinese se manca uno degli interlocutori principali, cioè Hamas, il partito che rappresenta la maggioranza del suo popolo, come attestato dalle elezioni del gennaio 2.006.

  Nemmeno il “disponibile” Abu Mazen, del resto, è riuscito a sottoscrivere con gli israeliani quel documento congiunto che avrebbe dovuto fungere da guida dell’incontro. Ehud Olmert, il quale al pari del suo interlocutore palestinese avrebbe tutto l’interesse a mostrarsi desideroso di un accordo, ha concesso talmente poco che la carta delle buone intenzioni è rimasta bianca. La riunione, però, si terrà lo stesso perché lo vuole fortemente l’Amministrazione Usa, che intende spostare, per un po’, l’attenzione dai disastri in Iraq e Afghanistan. Anche Bush, come suo padre e come Clinton, desidera  lasciare, al termine del suo mandato, l’immagine di un presidente impegnato a risolvere l’annoso conflitto. E’ ovvio che qualsiasi concessione israeliana può essere imposta solo con una forte pressione degli Usa. In questa stagione elettorale, in cui nessuno vuole inimicarsi la lobby ebraica –che, come dicono gli amici dei sionisti, forse non esisterà, ma comunque funziona benissimo-  si può indovinare quanta voglia avranno Bush e la Rice di mettere alle corde il premier israeliano.

  Il Quartetto (Onu, Ue, Usa e Russia) che avrebbe dovuto agevolare la trattativa fra le parti in causa si è lasciato governare dalla volontà di Washington, come ha riconosciuto l’inviato speciale dell’Onu, Alvaro de Soto. Il pilastro della politica statunitense è stato la non accettazione del risultato delle elezioni palestinesi, svoltesi in modo regolare, come riconosciuto da tutti gli osservatori, con la conseguente imposizione di severe sanzioni economiche ai palestinesi. Dopo gli scontri a Gaza che hanno visto la vittoria delle milizie di Hamas su quelle di Fatah, gli israeliani hanno aumentato le ritorsioni contro quella che definiscono un’ “entità nemica”. Il blocco della Striscia si è intensificato, anche attraverso ripetuti tagli all’energia elettrica e ai rifornimenti di carburante, mettendone in ginocchio la già precaria economia. Il 60% degli impiegati in attività private ha perso il posto, le derrate alimentari scarseggiano e il loro prezzo sale di conseguenza, ma la situazione più drammatica è forse in campo sanitario. Si pensi che, oggi, solo 5 malati al giorno possono recarsi a ricevere le necessarie cure in Israele e Cisgiordania contro i 40 del luglio scorso.

  Il piano, evidentemente, è quello di tormentare i cittadini di Gaza e allentare parzialmente la morsa nella West Bank in mano al Fatah, per indurre i palestinesi ad abbandonare il Partito religioso e accettare il male minore. Non è detto che la mossa riesca perché i palestinesi, di solito, nella massima sofferenza, cementano la volontà di resistenza. Secondo il sondaggio più recente, infatti, il capo del governo di Hamas è al 51,38% dei consensi nei territori occupati, mentre Abu Mazen si deve accontentare di un modestissimo 13,73%. In seguito agli scontri di Gaza, le cancellerie occidentali hanno accusato il Partito religioso di avere effettuato un golpe, impossessandosi di tutto il potere nella Striscia. A parte che si sarebbe trattato di un autogolpe, essendo Hamas a reggere il governo, sono emersi, negli ultimi tempi, alcuni elementi, ovviamente silenziati dal network mediatico internazionale, che servono per capire quanto sia successo.

  Dopo il ritrovamento di grandi quantità di armi fornite dagli statunitensi e dagli israeliani e per la stessa ammissione di alcuni suoi collaboratori, si è compreso che chi stava preparando un colpo di mano era  l’“uomo forte” di Fatah a Gaza, Mohammed Dahlan, il quale se l’è data a gambe non  appena ha compreso che le sue truppe, pur superiori militarmente, stavano soccombendo contro i più determinati avversari. Si tratta dello stesso Dahlan che, adesso, gli Usa vogliono presente all’incontro di Annapolis e, secondo alcuni, stanno cercando di imporre ad Abu Mazen come suo vice. Quando si dice le coincidenze…

  E’ sconcertante che la più grande potenza internazionale, con l’assenso di tutte le altre, pensi di ridurre le gravi conseguenze, in tutto il Medio Oriente e non solo, dell’irrisolta questione palestinese, con raffazzonati accorgimenti cosmetici come quelli che emergeranno dal prossimo vertice. Non si vuole capire che l’ascesa di Hamas è stata causata da vari fattori, ma quello decisivo consiste nella delusione dei palestinesi per il vicolo cieco in cui si erano arenate le trattative di pace. Basta anche un solo dato per chiarire la situazione: dal 1.993 al 2.000, mentre l’Olp riconosceva Israele e firmava svariati accordi di transizione, il numero dei coloni ebrei nei territori occupati è raddoppiato. Israele “trattava” per restituire la terra e intanto ne occupava sempre di più. Adesso, per l’ennesima volta, un governo israeliano promette, imponendo ogni sorta di condizioni, la nascita dello Stato palestinese, ma quale Stato può sorgere in una Cisgiordania riempita di inaccessibili cittadelle nemiche, con strade vietate alla popolazione autoctona, con un muro che entra nei suoi confini e dove i posti di blocco dell’esercito israeliano sono saliti dai 376 dell’agosto 2.005 ai 572 attuali? Si riesce ad immaginare cosa significhi nascere, vivere, e magari anche crepare perché non si riesce a raggiungere l’ospedale, in una nazione dove i tuoi nemici impediscono o controllano i tuoi movimenti, ogni giorno dopo l’altro da 40 anni?

  Hamas, si dice, avrà pure vinto le elezioni, ma non riconosce Israele ed è un movimento islamista di matrice terroristica. La carta del riconoscimento del nemico è, però, la sola che resta al Partito islamico e non ha senso chiederla preventivamente, ma solo dopo un accordo finale. Inoltre, Hamas non ha mai compiuto attentati all’estero e ha sempre dichiarato di non avere come nemico l’Occidente, ma di volere condurre solo la lotta di liberazione nazionale. Anche se non mancano ombre sui suoi principi ideologici, è possibile che oggi Hamas sia, invece, l’ultimo baluardo contro un’ infiltrazione di terrorismo jihadista nella disperata popolazione palestinese che, finora, ne è stata immune. Ma siamo proprio sicuri che non ci sia chi trama affinché la questione palestinese venga espropriata da un nuovo, improvvisato bin Laden, per cancellarla definitivamente dall’agenda politica internazionale?  

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