Diorama

Mensile di attualità culturali e metapolitiche diretto da Marco Tarchi

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Puritani d’ofriente

18 Luglio 2007 Redazione

 

Il compromesso piuttosto che Il conflitto

Già Machiavelli insegnava che non bisogna mai battere o umiliare un nemico che non può essere distrutto, bensì farsene un amico. Anche i capitani d’industria giapponesi hanno imparato a " non cercare vittorie definitive ". In caso di conflitto interpersonale o sociale, l’obiettivo non sarà tanto convincere per via argomentativa, quanto arrangiare la situazione per predisporre i partners ad accettarne la modifica nel senso desiderato. Al modello occidentale di scambio sociale, di tipo "equilibrato" ma unidimensionale, si contrappone pertanto un modello giapponese di scambio "generalizzato", operante in un contesto multidimensionale e diffuso, che mira essenzialmente al mantenimento delle interazioni nel tempo. In quest’ultimo modello, ci si sforza di ricondurre i conflitti all’interno di un gruppo concepito come una sorstess

ta di insieme degli abitanti della a casa (soto), nel quale la prossimità e la solidarietà fra gli attori sono forti, per risolverli in una relazione faccia a faccia, per il tramite di relazioni interpersonali fondate sulla fiducia e cariche di emozione. Lo scopo è sempre giungere a un compromesso (ura) che non minacci la situazione dell’altro (omote); l’idea generale è che qualunque conflitto o disaccordo può essere stemperato in un contesto più vasto di interessi condivisi". Questo modello, che fa del potere prima di tutto un luogo di conciliazione, ha consentito di teorizzare il Giappone come " società di reti

Si può immediatamente vedere l’affinità esistente fra questa strategia e il judo, sport nazionale in Giappone. Il judo è tutto il contrario della boxe, poiché la sua arte consiste nel rivolgere contro l’avversario la sua stessa forza. Da questo punto di vista, si può dire che nel corso della sua intera storia, il Giappone non ha mai smesso di combattere un incontro di judo con i suoi partners asiatici e occidentali: invece di battersi frontalmente con i concorrenti, ne ha regolarmente adottato il sapere per meglio rivolgerlo contro di loro".

 

 

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I " valori asiatici " sono Immutabili?

I " valori asiatici ", dopo aver dimostrato la propria efficacia, sono oggi minacciati? t nota la tesi secondo cui l’innalzamento del livello di vita comporterebbe meccanicamente l’allineamento dei paesi ricchi al modo di vita e alle credenze sociopolitiche degli occidentali. L’integrazione nel mercato mondiale favorirebbe in maniera automatica il progredire dell’individualismo, della democrazia liberale e dell’ideologia dei diritti dell’uomo. Questa tesi viene sostenuta soprattutto negli ambienti liberali, che vedono nella crescita una sorta di "leva della libertà"più le società diventano ricche, più la loro struttura sociale si complica e diventa incompatibile con la dittatura. Un punto di vista analogo è espresso dai politologi " realisti ", secondo i quali il miglior modo per convertire la Cina all’ideologia dei diritti dell’uomo è, tutto sommato, intrattenere con essa scambi di ogni genere, e in particolare commerciali. " La maniera più efficace per agevolare il progresso delle libertà e della democrazia ", ritiene ad esempio Alain Peyrefitte, " è aiutare la Cina ad inserirsi nella cOm9nità planetaria, dialogare con essa per spingerla a rispettare sempre più le norme internazionali Sarebbe facile far notare che queste " norme internazionali " sono considerate dai non-occidentali prima di tutto norme occidentali, e che inoltre la dittatura di Pinochet in Cile si è adeguata benissimo alle soluzioni economiche ultraliberali predicate dai Chicago boys. Anche l’assimilazione della società libera alla società di mercato è discutibile: ancora una volta, è l’Occidente a pretendere di definire la " civiltà " per ergersene a modello. Tuttavia, qualunque opinione si abbia dei valori occidentali, due. domande meritano di essere poste. Si tratta di capire, per un verso, se modernizzazione e occidentalizzazione siano sinonimi o vadano necessariamente di pari passo e, per un altro verso, se l’una o l’altra (o ambedue) producano ovunque gli stessi effetti.

Già nel 1942, Joseph Schumpeter rispose affermativamente alla seconda di queste domande, affermando che l’industrializzazione-urbanizzazione e l’arricchimento materiale delle società non potevano portare che alla rovina dei valori tradizionali: " Non appena gli uomini e le donne traggono la lezione dall’utilitarismo [ ] e introducono nella loro vita privata una sorta di sistema informale di valutazione dei costi e dei benefici, essi non possono fare a meno di comprendere il peso dei sacrifici personali che i legami familiari, e in particolare i legami parentali, implicano in una società moderna ".

Di recente, Samuel P. Huntington ha viceversa violentemente criticato l’idea secondo cui le società non occidentali, modernizzandosi, diverrebbero sempre più identiche e si allineerebbero perciò progressivamente all’Occidente, prima regione del mondo ad essersi modernizzata. Distinguendo tra modernizzazione e occidentalizzazione, egli si sforza di dimostrare che un paese che si modernizza non per questo diventa "occidentale", e afferma che sarebbe ora che gli occidentali smettessero di credere nell’universalità dei propri valori specifici: " Quello che per l’Occidente è universalismo, non è che imperialismo per il resto del mondo [ ] L’imperialismo è la conseguenza logica, necessaria, dell’universalismo ".

Contrariamente a quanto si tende a credere, prosegue Huntington, non è quando si arricchiscono, ma al contrario quando sono povere che le società non occidentali si mettono a prendere lezioni dall’Occidente: " Quando le società non occidentali si sentono deboli di fronte all’Occidente, parecchi dei loro dirigenti invocano i valori occidentali di libertà, democrazia, liberalismo e autonomia, per giustificare la loro opposizione al dominio globale dell’Occidente. Adesso che non sono più deboli, ma anzi sempre più potenti, esse denunciano come "imperialismo dei diritti dell’uomo" quegli stessi valori che un tempo invocavano per promuovere i propri interessi "Il. La fiducia liberale in una progressiva " convergenza " dei paesi ricchi sarebbe dunque una mera illusione. Prova ne è che i paesi asiatici sono oggi i primi a spiegare la loro espansione economica non con l’importazione dei valori occidentali ma con la conservazione dei propri valori. Huntington constata inoltre che quando si svolgono nei paesi non occidentali elezioni democratiche, sono sempre più spesso i partiti occidentali ad avere la meglio: " La democrazia tende a rendere le società più particolaristiche, non più cosmopolite [ ] La democratizzazione contraddice l’occidentalizzazione "’-. " Il problema centrale delle relazioni fra l’Occidente e il resto del mondo,,, conclude, " risiede nel fossato esistente tra gli sforzi degli occidentali, e più specificamente degli americani, per promuovere la cultura occidentale come cultura universale e la loro incapacità sempre maggiore di riuscire nell’intento ".

Questa tesi molto interessante merita di essere discussa. Non vi è dubbio che i valori occidentali siano in un’ultima analisi valori particolari e non universali. Ma ciò significa che non possono essere universalizzati? E la modernizzazione non è il miglior mezzo per realizzarne l’universalizzazione?

La domanda sollevata da Huntington è in effetti essenziale, giacché investe un evidente retroterra antropologico. Si tratta di capire se le culture umane siano integralmente riducibili le une alle altre, e dunque se in definitiva l’uomo stesso (in quanto membro di una data cultura) sia malleabile all’infinito, o se invece le influenze subite dalle culture, per quanto massicce e persistenti possano essere, non ne lascino malgrado tutto intoccata la personalità profonda. Affermare che la modernizzazione del pianeta ne comporterà ineluttabilmente l’omogeneizzazione e l’allineamento all’Occidente significa rispondere affermativamente al primo corno dell’alternativa, e di

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conseguenza porta a rinunciare a qualsiasi idea di una relativa permanenza delle culture. Se viceversa si ritiene che le culture rimangano fondamentalmente identiche pur attraverso le loro molteplici incarnazioni, tanto che tra di esse sussisterebbe sempre una certa incommensurabilità (come pensava Spengler, seguito su questo punto da Huntington), allora bisogna ammettere che la modernizzazione non è intrinsecamente destrutturante e omogeneizzante. Ma ciò è proprio quel che deve essere ancora dimostrato. Sino ad ora, l’adozione da parte di una determinata cultura di una tecnica o di una credenza proveniente da un’altra cultura sembra non aver mai comportato un’accuiturazione integrale, cioè una perdita totale di identità. L’Europa ha in una certa misura "paganizzato" il cristianesimo, l’Africa lo ha "africanizzato" e l’arrivo in Cina del buddhismo nato in India ha avuto come conseguenza non l’indianizzazione della Cina ma la cinesizzazione del buddhismo. In passato, tuttavia, le culture si sviluppavano ancora all’interno di spazi relativamente distinti, nei quali si potevano realizzare, con l’andar del tempo, delle sintesi specifiche. E ancora così? L’attuale processo di modernizzazione, per il suo carattere globale, consente ancora a sintesi di questo genere di realizzarsi? Ovviamente, non disponiamo ancora di una distanza temporale sufficiente per rispondere a questo interrogativo. Ma l’esempio del Giappone fornisce forse un primo abbozzo di risposta.

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