Diorama

Mensile di attualità culturali e metapolitiche diretto da Marco Tarchi

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Quo vadis America

18 Luglio 2007 Redazione

1. Quo vadis, America?

Dopo il crollo dell’Urss e la fine del sistema di Yalta, gli Stati Uniti costituiscono l’unica superpotenza mondiale. Il loro potenziale è enorme, la loro potenza militare schiacciante, la loro capacità d’innovazione tecnologica senza rivali. Anche se la condizione d maggior debito i mondiali Iimita alcune delle loro iniziative le imprese americane rappresentano non meno di un terzo delle maggiori ditte internazionali , e con soltanto il 5% della popolazione del pianeta il Pil nordamericano rappresenta oltre un quarto della ricchezza mondiale. La Cnn regna sulla televisione, Hollywood sul cinema, Microsoft sull’informatica, mentre la Nato, il dollaro e la lingua inglese contribuiscono a dotare gli Usa degli strumenti del dominio mondiale. Nel frattempo, la Russia avanza lentamente fra le macerie del sistema sovietico, l’Europa resta politicamente spezzettata, il Giappone non riesce a riprendersi dalla crisi finanziaria asiatica e le élites dell’intero mondo continuano a sfilare nelle università d’oltreatlantico. Solo la Cina, in queste condizioni, può pensare di imporsi agli Usa nel prossimo secolo. Da qui ad allora, non esistono alternative pratiche globali alla potenza americana.

Eppure, l’egemonia americana non è assolutamente più quella di un tempo. Anzi: negli ultimi mesi la Casa Bianca ha visto accumularsi i rovesci. Potremmo simboleggiarli nelle "quattro I": lrak, Iran, Israele e India. Sette anni dopo la guerra del Golfo, Saddam Hussein è ancora al suo posto. Gli europei e i russi si sono opposti – su iniziativa francese a una nuova spedizione militare contro di lui, e la prosecuzione delle sanzioni che lo prendono di mira si fa ogni volta più problematico. Anche la strategia di "contenimento" di Teheran è fallita: di fronte al rifiuto degli europei di aderire alla sua crociata contro Cuba, Libia e Iran, Bill Clinton ha dovuto rinunciare a far applicare le sanzioni previste dalle leggi D’Amato e Helms-Burton. Malgrado l’infaticabile attivismo di Madeleine Albright, Israele rifiuta ostinatamente di riprendere il processo di pace in Medio Oriente. Infine, più di recente, gli esperimenti nucleari indiani, subito seguiti da quelli del Pakistan, hanno palesemente costituito un atto di aperta ribellione contro il dominio di Washington sulla diplomazia occidentale. E anche in questo caso Clinton ha dovuto prendere atto del rifiuto di russi ed europei di sottoscrivere le rappresaglie commerciali che voleva imporre a Nuova Delhi.

Di fronte a questa situazione, gli Usa reagiscono in una maniera ambigua, che si può capire solo risalendone alle fonti. Lungo tutto il corso della loro storia, essi si sono costantemente dimostrati nel contempo sciovinisti e universalisti, isolazionisti e interventisti. Sin dall’epoca dei Padri fondatori, gli States ritengono che il loro "destino manifesto" consista nell’esportare nel mondo il modello di esistenza politica e sociale da loro incarnato. Questa convinzione messianica si fonda però in gran parte su una visione mercantile, che tende a confondere politica internazionale e "diplomazia del negozio": allineamento delle legislazioni nazionali a quella degli Usa, apertura dei mercati, libertà di movimento dei capitali.

Contrariamente a quel che spesso si dice, è da questo punto di vista che l’egemonismo americano non ha niente di imperiale. Una politica imperiale è per natura pacificatrice: mira a organizzare la coerenza delle parti dell’impero, a realizzare l’unità delle loro lealtà. L’egemonia affermata dagli Stati Uniti è invece di natura competitive. Le loro mire sono essenzialmente commerciali e dunque concorrenziali, il che impedisce loro di pacificare i rapporti con i paesi "vassalli" e rafforza la loro indifferenza insulare agli equilibri locali. Gli "interessi vitali" statunitensi si confondono infatti con il buon funzionamento del mercato mondiale. L’ordine che vogliono veder regnare nel mondo non consiste nella instaurazione della giustizia o della pace, bensì nell’apertura alla penetrazione dei loro prodotti. In altri termini, la tradizione americana consiste nel vedere nella politica della porta aperta l’essenza delle relazioni fra gli Stati, in un’ottica di "progresso" universale. Ciò che rende la politica estera di Washington incerta è la vertigine economica del pensiero politico, cioè il fatto che l’ultima parola nei rapporti fra gli Usa e il resto del mondo è sempre data dall’ossessione del libero scambio.

Jean Daniel ha scritto, non senza ragione, che gli Stati Uniti danno l’impressione ,di essere un mostro decapitato che non sa che cosa fare della propria potenza. Mossi da preoccupazioni essenzialmente economiche e morali, essi dominano grazie al peso naturale, alla loro forza d’inerzia, più che per effetto di un grande disegno politico. Hanno più potenza che obiettivi, più peso che volontà. Questo ‘atteggiamento si è ulteriormente rafforzato con Clinton. La scomparsa del blocco sovietico ha infatti sottratto alla politica estera americana quello che per quasi mezzo secolo ne era stato il principale punto di riferimento e la principale molla. Senza un avversario in cui identificare l’ "impero del male", la diplomazia americana si trova in una situazione precaria. Si affanna a perseguire una molteplicità di obiettivi che nessuna visione d’insieme rende coerenti. Di conseguenza, la sua strategia si fa strettamente negativa, essendo il suo unico scopo l’impedire con tutti i mezzi l’emergere di una potenza regionale concorrente. Riconosciuti come la sola superpotenza mondiale, gli Usa devono fare fronte a una moltitudine di situazioni locali che non riescono più ad orchestrare. Il che non è necessariamente rassicurante. Non è consolante essere dominati da una potenza che non sa cosa vuole.

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