Diorama

Mensile di attualità culturali e metapolitiche diretto da Marco Tarchi

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Vietato uscire e Niente da fare

13 Giugno 2011 Redazione

Quando, nel 1934, pubblicò Journal d’un homme trompé, Pierre Drieu La Rochelle aveva da poco superato la fatidica soglia degli “anta”. Aveva, infatti, quarantuno anni, un’età in cui si può anche provare a fare un primo, provvisorio bilancio della propria vita – una vita che aveva, del resto, imboccato la dirittura finale: gli restavano solo undici anni prima di “aderire, finalmente, alle cose”. In uno dei quattro racconti compresi in questi volumetti (che fanno parte, appunto, del Journal e che, per ragioni a noi sconosciute, non sono compresi nell’edizione pubblicata da Sellerio nel 1992), “La donna con il cane”, leggiamo: “A che pro conoscere una vita in più? Una vita in più o in meno. Un aneddoto fra tanti altri”. Quando, nel 1934, pubblicò Journal d’un homme trompé, Pierre Drieu La Rochelle aveva da poco superato la fatidica soglia degli “anta”. Aveva, infatti, quarantuno anni, un’età in cui si può anche provare a fare un primo, provvisorio bilancio della propria vita – una vita che aveva, del resto, imboccato la dirittura finale: gli restavano solo undici anni prima di “aderire, finalmente, alle cose”. In uno dei quattro racconti compresi in questi volumetti (che fanno parte, appunto, del Journal e che, per ragioni a noi sconosciute, non sono compresi nell’edizione pubblicata da Sellerio nel 1992), “La donna con il cane”, leggiamo: “A che pro conoscere una vita in più? Una vita in più o in meno. Un aneddoto fra tanti altri”. Non si può certo dire che queste parole siano autobiografiche. L’esistenza di Drieu era stata tutt’altro che aneddotica e insignificante. L’intellettuale normanno aveva vissuto intensamente, sia in campo sentimentale che in ambito politico. Come scrittore, aveva già pubblicato quello che resterà uno dei vertici della sua narrativa, il romanzo breve (o racconto lungo) Fuoco fatuo. Aveva partecipato alla carneficina del primo conflitto mondiale, esperienza raccontata senza indulgere a pose belliciste ne La commedia di Charleroi. Aveva fatto vibrare le corde dell’impegno politico, e ancor di più le farà vibrare negli anni successivi, fino al suicidio – la sua saggistica politica è molto nutrita, e ad allungare ulteriormente la lista è giunta recentemente una raccolta di Textes politiques (Krisis) curata da Julien Hervier e Jean-Baptiste Bruneau. Aveva bevuto avidamente dalla coppa della vita e ora se ne ritraeva, trompé, ossia tradito, deluso, disgustato. Ecco, quest’aggettivo può essere considerato la sintesi, il consuntivo del bilancio, tanto per restare nelle metafore ragionieristiche.

Questa delusione si manifesta, in tre dei quattro racconti di cui qui ci occupiamo (precisamente, “Niente da fare”, “La voce” e “La donna con il cane”), sul piano dei rapporti interpersonali. I personaggi appaiono apatici, freddi, come il Gille de “La voce”, incapaci di ricambiare l’affetto che viene loro offerto (in “Niente da fare”). Alla compagnia degli umani, essi preferiscono quella degli animali. In “Vietato uscire”, il disgusto assume, invece, marcate connotazioni politiche e filosofiche, nelle quali si avvertono echi del discorso dello Zarathustra di Nietzsche sull’uomo e contro l’uomo, “qualcosa che deve essere superato”, “fiume immondo”, che può essere apprezzato e amato solo nella misura in cui si auto-rappresenta come una transizione e un tramonto; il disgusto diventa riflessione sulla decadenza e sull’uomo della decadenza, attraverso gli stilemi del racconto fantascientifico e della distopia, cioè dell’utopia negativa. Una scelta, quella di ricorrere a questo tipo di narrazione, solo in apparenza sorprendente, dal momento che Drieu si è costantemente messo alla prova in diversi generi letterari, come egli stesso ricorda nella prefazione di Gilles (la poesia, il romanzo, il teatro, la novella, la critica, il saggio), senza perdere coerenza, ed anzi restando fedele al motivo ispiratore della sua opera. Il divieto cui allude il titolo è quello di uscire dalla condizione umana, avvertita come un insostenibile peso del quale non riusciamo a sgravarci: “L’uomo non era e non poteva essere che così come la Terra lo aveva fatto; al di fuori della Terra non era più uomo e diventava una cosa senza nome, un nulla”. Questo è l’articolo di fede dei sostenitori di Quaggiù, il partito che, nel racconto, ambientato negli anni sessanta del secolo scorso, si oppone ai viaggi interplanetari, all’apertura verso lo spazio, nel timore che l’uomo, sradicato da quella che da sempre è stata la sua casa, possa perdere se stesso (e nel timore, non confessato ma reale, che l’uomo possa sfuggire al controllo di tutte quelle agenzie, come le Chiese e i Partiti, che sull’uomo fondano il proprio potere). Nessuna paura manifestano, invece, gli adepti di Altrove, convinti che la Terra non sia affatto “la dimora naturale e obbligatoria” degli uomini e per niente spaventati dalla prospettiva che l’umanità, “emigrando verso altri pianeti potesse non essere più umana, trasformarsi del tutto, sia fisicamente che psichicamente, e gettare al vento dei mondi categorie di un intelletto che valeva solo sotto la calotta soffocante dell’atmosfera terrestre”, dove si muore di noia. L’altrove, l’ignoto vagheggiato nel racconto, in cui l’uomo, come un serpente nel periodo della muta, acquisisce una nuova pelle e si rigenera, rimane, nelle pagine di Drieu, evanescente, nient’altro che una rêverie.

Uno scrittore che usasse i topoi della fantascienza non avrebbe bisogno, ai giorni nostri, di ricorrere ai viaggi spaziali per immaginare il superamento dell’uomo, ma ricorrerebbe, più plausibilmente, agli scenari che la scienza e la tecnica applicate all’uomo possono realizzare qui, sulla Terra, come accade nei romanzi di Michel Houellebecq; oppure negli scritti, non di fantascienza, ma politico-filosofici, di un Aldo Schiavone o di un Pietro Barcellona. Per esaltarsi o deprimersi, criticare o approvare, mettere in guardia o incitare a seguire la corrente.

Comunque la si pensi, c’è un altro testo su cui vale la pena meditare. Si trova nella prefazione del 1942, già citata, di Gilles, dove Drieu scrive: “Due sono le cose che restano: la gioia dell’artigiano che fa il suo lavoro e dice a se stesso che partecipa a quella meravigliosa avventura che è il lavoro dell’uomo – e la gioia di essere uomo, di restare uomo puro e semplice […] Un uomo che mangia, beve, che fuma, che fa l’amore, che marcia, nuota, che non pensa a niente e che pensa a tutto, un uomo che non fa niente e non è niente, un uomo che sogna, prega, si prepara alla terribile e splendida morte”. Non sappiamo se l’uomo diventerà, prima o poi, oggetto da museo, un po’ come certe popolazioni studiate da antropologi ed etnologi. Sappiamo che, finché ci saranno uomini, non potranno non specchiarsi e non riconoscersi in queste parole dello scrittore normanno.

*

Pierre Drieu La Rochelle,
Vietato uscire, Via del Vento, Pistoia 2007, pagg. 35, euro 4.

Pierre Drieu La Rochelle, Niente da fare, Via del Vento, Pistoia 2007, pagg. 35, euro 4.

[tratto da Diorama letterario n. 302]

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