DIORAMA

Mensile di attualità culturali e metapolitiche

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Cattiva maestra televisione

   IDEE  Karl R.Popper e John Condry, Cattiva maestra televisione, Reset-Donzelli, Roma 1996, pagg. 96, lire 10.000   Pierre Bourdieu, Sulla televisione, Feltrinelli, Milano 1997, pagg. 122, Lire 22.000. Le ...

 

IDEE

Karl R.Popper e John Condry, Cattiva maestra televisione, Reset-Donzelli, Roma 1996, pagg. 96, lire 10.000
Pierre Bourdieu, Sulla televisione, Feltrinelli, Milano 1997, pagg. 122, Lire 22.000. Le notizie più recenti circa la televisione italiana ci dicono che molti programmi televisivi, soprattutto varietà e talk-shows, sono in grave crisi, registrando cali di ascolto come non succedeva da tempo. Gli italiani si sono stancati improvvisamente della televisione e sono tornati alla conversazione serale attorno al focolare domestico? 0 magari hanno scoperto il piacere della lettura? 0, più semplicemente, preferiscono il cinema? Lasciamo la risposta alla sociologia da rotocalco, perchè la notizia ci serve solo da prete sto per ricordare come la Tv sia, con cadenza quasi settimanale, alla ribalta dell'informazione su carta, quando non é lei stessa ad interrogarsi. La vittoria di Berlusconi alle elezioni del 1994 ha certamente contribuito al rilancio del dibattito sui mass media, con grande profusione di voluminosi saggi e agili pamphiets che esprimono di volta in volta posizioni da "apocalittici" oppure da "integrati". Quest'anno più che mai, i reparti che le librerie riservano allargamento si presentano stracolmi di nuovi titoli, e persino un politologo di fama internazionale come Giovanni Sartori si é cimentato nell'analisi del fenomeno televisivo. Il titolo che forse più di ogni altro ha suscitato, a suo tempo, un grande dibattito, acceso da polemiche e rimbalzato nel mondo politico, é stato Cattiva maestra televisione di Karl Popper. Il breve scritto, uscito in Italia quasi in contemporanea alla morte del filosofo avvenuta nel settembre del 1994, era accompagnato dagli scritti di altri autori, tutti accomunati da un atteggiamento fortemente critico, se non allarmato, nei confronti del mezzo televisivo. Un paio di anni dopo ne é uscita una nuova versione, arricchita da due scritti di Karol Wojtyla in cui le speranze riposte in un potenziale strumento di diffusione planetaria

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del messaggio evangelico si mescolano ai timori circa la natura perversa e dissolutrice della Tv. I dati forniti da John Condry e da Chartes S.Clark circa i tempi di esposizione dei bambini al televisore e i valori o, meglio, i disvalori propinati ogni ora dai canali televisivi non lasciano certo molto spazio al l'ottimismo, se non forse a quello del Pontefice, che sembra ritenere praticabile un'azione di filtraggio e di correzione del messaggio televisivo da parte di una comunità cristiana fatta di gerarchie ecclesiastiche e fedeli volenteroso che agiscono combattivi all'interno della società civile. Come sottolinea Giancarlo Bosetti nella sua introduzione, non può risultare curiosa la sostanziale convergenza che "sulla funzione educativa (o diseducativa) della televisione" si registra tra le posizioni del capo della Chiesa e quelle del maestro del pensiero liberale. Popper si dichiara profondamente preoccupato per la brutta china presa dai programmi televisivi nell'ultimo decennio. Il suo riferimento é specifica mente agli Usa e alla Gran Bretagna, ma il discorso é estensibile a gran parte del mondo occidentale, Italia compresa. Le sue attenzioni vanno verso le generazioni più giovani: la televisione va sempre più sostituendosi a genitori latitanti e a una scuola dove prestigio e passione sono cosa rara. La televisione come nuova baby sitter (" bambinaia elettronica", la definisce il Papa) e nuova scuola. Ma si tratta di una governante infedele, come dice Condry, e di una scuola di violenza. Su queste valutazioni concordano un pò tutti gli interventi del volumetto. Popper può sorprendere, e ha difatti sorpreso molti, sottolineando la necessità di dar vita ad un "codice etico" e ad un organismo (una "Corte") incaricato di rilasciare una "patente" che autorizzi a creare palinsesti televisivi. Questa patente verrebbe rilasciata dopo un regolare corso, la cui funzione essenziale sarebbe quella di rendere consapevoli i futuri operatori televisivi dell'immenso potere che avranno per le mani. Conseguentemente, un altro obiettivo sarebbe la sensibilizzazione dell'uomo di televisione, il cui ruolo é paragonabile a quello dell'educatore, anzi ne costituisce una vera e propria versione aggiornata ai nostri tempi telematici. Di fronte a questa proposta, ci si é chiesti chi abbia le qualità e la competenza per ricoprire la carica di membro della Corte che rilascia le patenti Tv. Sorge così l'interrogativo che Popper definirebbe tipico del modo platonico di considerare il problema politico: " Chi deve comandare? ". Il filosofo di origine austriaca sostiene che questo non é I 'approccio corretto alla politica, perchè il suo esito é inevitabilmente autoritario: finiscono per governare i migliori, sempre e comunque un'èlite che si distingue per questo o quell'attributo. Non lo soddisfa neppure sentirsi rispondere che é il popolo a dover comandare, perchè gli effetti dispotici, a suo avviso, non cambiano. E la domanda ad essere sbagliata, una domanda che chiede chi é il titolare della sovranità. Una vera teoria della democrazia si può costruire, secondo Popper, solo come risposta al seguente quesito: si può sanzionare e licenziare un governo senza spargimento di sangue? Un insieme di istituzioni che assicurano questo rovesciamento incruento é sicura mente definibile come democrazia. Esposta in sintesi la teoria democratica popperiana, resta però più che mai pressante l'interrogativo su chi sia legittimato ad assegnare la sua patente televisiva e a ritirarla se ne é il caso. E, del resto, quando é il caso? Chi lo stabilisce? é evidente come la proposta di Popper sollevi delicate questioni di ordine morale. E' soprattutto l'esistenza o meno di un'etica pubblica nelle società occidentali ad essere chiamata in causa. Dove sono i criteri di riferimento? Dove le norme per orientare il comportamento e distinguere il bene dal male e tali da non temere di incappare nell'obiezione secondo cui, vincolando le azioni a valori stabiliti, viene lesa la libertà di espressione? In un'epoca di relativismo morale non é facile scindere la censura operata a fin di bene da quella finalizzata a difendere interessi di parte. Manca un'idea forte e realmente condivisa di bene comune, specialmente in società sempre più frammentate e divise in gruppi, associazioni ed enti privati ciascuno dei quali é portatore di istanze spesso in conflitto con quelle di altri. Perchè si dovrebbe chiudere un canale televisivo che crea occupazione e, con le pubblicità trasmesse, alimenta il circuito del consumo? Perchè ha superato i parametri che misurano il tasso di violenza teletrasmessa? E chi stabilisce il grado, l'intensità-limite da non oltrepassare? Queste sono le obiezioni che subito verrebbero formulate. E fin qui niente di grave: resteremmo al l'interno della normale dialettica politica e sociale che caratterizza e rinvigorisce una democrazia. Ma il problema é un altro: l'opinione pubblica (ammesso che esista) é idealmente ed eticamente motivata per contrapporsi legalmente ma strenuamente alle probabili pressioni economiche delle lobbies colpite dalla censura? Avremo rivolte morali (già la parola può sembrare forte, e questo é indicativo) che porteranno significative fasce della popolazione a organizzarsi per manifestare il proprio dissenso, facendo a loro volta pressioni sul governo di turno? Tutte queste domande mettono a nudo il punto debole di tanta parte della riflessione politica liberale, e cioé l'etica, il piano dei valori. Negli ultimi anni di vita, Popper aveva sempre più avvertito questa deficienza del liberalismo occidentale, e pensava di porvi un rimedio tramite il richiamo alla responsabilità che gli adulti dovrebbero assumersi nel confronti delle generazioni più giovani, in particolare i bambini. Ma nonostante lo sforzo popperiano, il problema resta aperto: dove sono i motivi che possono indurre a censurare la violenza, non solo quella reale ma anche quella cinematograficamente rappresentata? Qualcuno

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potrebbe rispondere: l'utilità per ogni cittadino ad a vere una vita quanto più pacifica possibile. Ma l'interesse egoistico non frena a sufficienza e anzi giustifica facilmente scelte opposte, ad esempio contrarie alla tolleranza. Insomma, con l'utilitarismo il serpente si morde la coda. Nel mondo della televisione l'utile ha un suo strumento di misurazione che in Italia si chiama auditel. Tanto più un programma é visto, tanto più gli sponsors hanno interesse ad investirvi oppure, nel caso di canali televisivi di Stato, maggiori sono le sovvenzioni pubbliche. Quindi, l'importante é avere alti in dici di ascolto e tutto il resto, semmai, viene dopo. Il caso più recente, fra i tanti che si potrebbero citare, é stato la messa in onda su Raitre del processo al pedofilo che alcuni anni fa violentò e uccise due bambini. Senza alcun filtro, alcuna forma di autocensura a fini etici, la televisione sembra ancora una volta voler dare ragione a Popper: violenza, sesso e sensazionalismo sono gli ingredienti della sua ricetta per catturare più audience possibile. Del perverso criterio che guida le scelte degli opera tori televisivi si é occupato di recente il noto sociologo francese Pierre Bourdieu. Il suo saggio Sulla televisione riveste un certo interesse per la capacità di svelare, in modo sintetico, alcuni meccanismi che operano all'interno dell'universo televisivo e che condizionano il comportamento di chi vi si muove dentro. Bourdieu non si limita infatti a smascherare i procedimenti tipici attraverso i quali viene operata quella distorsione e, talvolta, creazione della realtà che contraddistingue il giornalismo televisivo, ma evidenze il peso che la "struttura" esercita su registi, giornalisti e conduttori. Gli stessi manipolatori sono manipolati da logiche che li sovrastano e che afferisco no al " campo giornalistico ", che include anche il mondo televisivo. Un campo é " uno spazio sociale strutturato ", con le sue leggi e le sue logiche, dove i fattori economici svolgono un ruolo ma non bastano a spiegare le scelte che vengono prese all'interno di una rete televisiva. Questo significa che conoscere l'identità del proprietario di un canale televisivo é utile ma non sufficiente a comprenderne pienamente le dinamiche interne. L'attenzione di Bourdieu si concentra sul settore del l'informazione giornalistica. I giornalisti, sia della carta stampata che della televisione, sono sottoposti a una serie di vincoli che fanno capo all'insopprimibile necessità di perseguire lo scoop ad ogni costo. " Per essere il primo a vedere e a far vedere qualche cosa, si é pronti a tutto ", osserva lo studioso francese. Poichè i beni che il campo giornalistico produce, e cioé le notizie, sono altamente deperibili, l'urgenza di scavalcare i rivali catturando il maggior pubblico possibile si fa quanto mai pressante. La corsa all'evento eccezionale, che poi é semplicemente ciò di cui gli altri non hanno ancora parlato, porta a subordinare il resoconto puntuale e l'analisi rigorosa al fatto pittoresco e stravagante. Che poi sia realmente un fatto o meno, poco importa. Con i sistemi di rilevazione dell'audience, scrive Bourdieu, il mondo della cultura, di cui la televisione fa comunque parte, viene sottomesso alla sanzione del mercato, cioé a una logica commerciale che gli dovrebbe essere invece estranea. Finisce così per predominare l'altra dimensione propria della televisione, quella dello spettacolo e dell'intrattenimento, che non é così innocua come si potrebbe pensare. Aldous Huxley sarebbe stato quindi più lungimirante di George Orwell, secondo quanto sosteneva anni fa Neil Postman in Divertirsi da morire (Longanesi, 1986): " Huxley e Orwell non avevano profetizzato le stesse cose. Orwell immagina che saremo sopraffatti da un dittatore. Nella visione di Huxley non sarà il grande fratello a toglierci l'autonomia, la cultura e la storia. La gente sarà felice di essere oppressa e adorerà la tecnologia che libera dalla fatica di pensare. Orwell temeva che i libri sarebbero stati banditi; Huxley non che i libri fossero vietati, ma che non ci fosse più nessuno desideroso di leggerli. Orwell temeva coloro che ci avrebbero privati delle informazioni; Huxley quelli che ce ne avrebbero date troppe, fino a ridurci alla passività e all'egoismo. [ In breve, Orwell temeva che saremmo stati distrutti da ciò che o diamo, Huxley da ciò che amiamo ]. Noi però non crediamo che nel divertimento e nella spensieratezza di chi guarda un frivolo programma televisivo si insinui sempre e comunque il male. Co me dice Condry, la televisione " può essere divertente; nell'intrattenimento non c'é nulla di intrinsecamente sbagliato. La televisione può essere informativa, e questo é un bene. Tuttavia, come strumento di socializzazione, é carente; occorre capire questo fatto e prenderne spunto per agire ". Scuola e famiglia sono i principali destinatari di questo messaggio, che vuoi essere un caloroso invito a (ri)costruire alternati ve al telecomando e alla poltrona. Un primo motivo potrebbe essere offerto dalle stesse programmazioni televisive, sempre più noiose e ripetitive. Perchè é proprio così: "la concorrenza, lungi dall'essere automaticamente generatrice di originalità e di diversità, tende spesso a favorire l'uniformità dell'offerta ". Un'ultima considerazione é d'obbligo: visto che, secondo Bourdieu, l'informazione asservita allo scoop minaccia la democrazia diffondendo schemi mentali piatti e conformisti, inaridendo il dibattito critico e la libera ricerca scientifica, perchè mai egli ha firmato nell'estate del 1993 il famigerato " Appello alla vigilanza " che condannava i sostenitori della " scomparsa di ogni demarcazione tra destra e sinistra [e] di un presunto rinnovamento delle idee di nazione e di identità culturale -? Se intanto l'intellettuale, come il cittadino, si impegnasse nel non facile compito di far corrispondere il dire al fare, non saremmo già a buon punto?

Danilo Breschi





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Data pubblicazione: 18 luglio 2007

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