Obbedienza [diorama.it]

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Obbedienza

   Da quando, ormai tre mesi fa, le truppe russe hanno varcato la frontiera ucraina il già affollato e compatto fronte degli intellettuali ossequienti ai dogmi dello spirito del tempo presente e dei loro facilitatori ...

Da quando, ormai tre mesi fa, le truppe russe hanno varcato la frontiera ucraina il già affollato e compatto fronte degli intellettuali ossequienti ai dogmi dello spirito del tempo presente e dei loro facilitatori insediati nei canali comunicativi ufficiali – quelli che, in termini di formazione delle opinioni, maggiormente contanoi – è ritornato in trincea per richiamare all'ordine i potenziali dissidenti. L'epoca-covid, per il momento sospesa, era già servita da palestra di allenamento, con il ricorso a una varietà di strumenti, dalla commozione al monito solenne passando per gli accorati inviti degli “esperti” e i provvedimenti costrittivi, per suonare lo spartito dell'allineamento alle verità sancite da vertici governativi ed establishment culturale. E vincere la guerra con(tro) l'orso russo è diventato il nuovo imperativo a cui tutti devono obbedire, con lo stesso spirito con cui si era chiamata un'intera popolazione – nazionale, continentale e mondiale – a battersi con ogni mezzo contro il virus, promosso a “nemico invisibile”.

Esprimere dubbi sull'interpretazione che ministri, capi di partito, editorialisti e conduttori di talk show forniscono dell'evento, con argomenti e toni che rasentano l'unanimismo, è ritornato ad essere, come ai tempi della pandemia, un delitto verso la salute pubblica. Perché, se allora era in gioco la sanità del corpo, ora ad essere a rischio di corruzione sarebbe quella dello spirito. E forse anche quella della mente, poiché nel sottofondo di molti interventi degli scatenati opinion makers si lascia intendere che chi non dà torto marcio al “pazzo” Putin, se non è da lui stipendiato – genere di illazioni a cui indulgono pseudo-politologi che sull'argomento non hanno nemmeno uno straccio di competenza, e che si dilettano nell'andare a rimorchio di compilatori di liste di proscrizione del calibro (si fa per dire) di un Riotta –, è altrettanto folle.

Credere (alla lettura degli eventi propalata dalle fonti di informazione che hanno la Nato e gli Usa come loro stelle polari), obbedire (alle parole d'ordine che ne derivano), combattere (per interposte armi fornite dai paesi occidentali al regime di Zelensky) è dunque diventata la nuova massima delle democrazie occidentali. E l'assonanza con vicende che ricordano storie italiane di altri tempi non si ferma qui, se si pensa al bizzarro remake del mussoliniano «volete burro o cannoni?» (con tanto di stentorea risposta dell'uditorio a favore del secondo corno dell'alternativa) con cui Mario Draghi si è rivolta alla platea di una conferenza stampa, proponendo la scelta fra «la pace e il condizionatore acceso».

Nel clima accorato di questa campagna, la sagra delle intemperanze verbali e comportamentali ha celebrato i suoi fasti più smodati, senza timore di scoprire il franco ad evidenti contraddizioni. Ogni elogio del pluralismo, abituale ingrediente di tutte le celebrazioni della superiorità delle democrazie liberali sui regimi politici accusati di “derive autoritarie”, è scomparso dai radar. O meglio, il tasto ha continuato ad essere premuto in prospettiva comparata nei molto rari casi in cui, fra lazzi, gesti di scherno e tagli di microfono, si è concesso a portatori di visioni distinte da quelle provviste di imprimatur atlantista di esprimersi («Vedete? Noi vi lasciamo parlare perché siamo liberi, mentre da voi i dissidenti vanno in galera o vengono soppressi»), mentre è rimasto spento ogni volta che si sarebbe potuto, o dovuto, considerare un altrui punto di vista come – secondo la retorica su molti altri temi imperante – un “arricchimento del dialogo”. E negli editoriali di alcuni quotidiani “indipendenti”, già specializzati in toni sprezzanti verso ogni obiezione alla propria linea, si sono letti dichiarati appelli a tappare la bocca agli ospiti sgraditi delle trasmissioni di (ipotetico) approfondimento.

Un altro aspetto dell'incongruenza della situazione che si è venuta a creare in questa nuova fase emergenziale ha riguardato l'ascesa e caduta delle cosiddette “autorità cognitive”. Per due anni ci eravamo sentiti impartire la lezione sulla necessità di prestar fede esclusivamente agli specialisti delle questioni su cui si incardinava la discussione pubblica: in quel caso, le malattie virali e le connesse misure di contenimento – vaccini, quarantene, dispositivi di sicurezza e via dicendo. E sebbene la fittissima partecipazione di praticanti della materia, più o meno illustri, avesse presto sgombrato il campo dall'ipotesi che dal confronto dei loro pareri potessero scaturire indicazioni univoche, la fiducia nella parola degli “scienziati” e degli studiosi era rimasta formalmente intatta, servendo anche per zittire o screditare il chiacchiericcio dei dilettanti, o dei professionisti rei di dissenso, imperversante nelle reti sociali. Di fronte al contenzioso russo-ucraino, le cose sono partite nella stessa maniera, invitando sui palcoscenici geopolitici, conoscitori della storia recente dei due paesi e docenti di relazioni internazionali, corrispondenti di giornali e reti televisive che hanno seguito la politica di Mosca per decenni. Ma quando alcuni di costoro si sono azzardati a mettere in dubbio alcune affermazioni apodittiche presenti nella narrazione ufficiale degli eventi in corso, sono staccati all'unisono l'indignazione dei commentatori schierati “dalla parte giusta” e la richiesta di esclusione degli untori dai circuiti della comunicazione mainstream. In Italia i casi più noti sono stati quelli di Mark Innaro e Alessandro Orsini, ma non si è trattato di vicende isolati e proscrizioni analoghe sono state applicate in vari altri paesi di area atlantista. Obbedire o togliersi di mezzo: ecco un altro dei comandamenti impartiti dai piani alti (istituzionali e comunicativi) dei paesi sedicenti liberi e pluralistici.

Non minori controsensi si sono registrati negli ambienti che hanno affrontato la vicenda bellica in termini più dichiaratamente ideologici – ovvero quelli liberali. Il principale Leitmotiv adottato su questo versante è stato quelle delle “responsabilità”. Ogni accenno alle cause remote dell'attacco russo al paese confinante, a partire dall'allargamento costante verso Est dell'Alleanza atlantica, ispirato e voluto dagli Stati Uniti e assecondato dall'Unione europea, e dalla manifesta ostilità verso il Cremlino delle amministrazioni di Washington, con la parziale eccezione del periodo di governo trumpiano, è stato respinto seccamente al mittente con il mantra «L'aggressore è la Russia, e ogni aggressione a uno Stato sovrano deve essere condannata senza se e senza ma». Peccato che quasi tutti coloro che hanno recitato il versetto avessero approvato, nella gran parte dei casi senza se e senza ma, tutte le numerose aggressioni a Stati sovrani operate nel corso dei precedenti decenni dagli Stati Uniti e dal suo braccio armato atlantico: Grenada, Panama, Jugoslavia, Afghanistan, Iraq, Libia. Naturalmente utilizzando l'argomento dell'«intervento umanitario», non meno ipocrita dell'«operazione speciale di denazificazione» richiamata da Putin. Intervenire con le armi per dar man forte agli indipendentisti del Kosovo e al loro esercito ribelle, l'Uçk, per costoro era non solo lecito ma doveroso; fare lo stesso a vantaggio dei separatisti del Donbass è un obbrobrio. Esistono dunque aggressori e aggrediti apprezzabili e altri contro i quali mobilitarsi. Di rado, l'espressione «due pesi e due misure» ha trovato una conferma più plateale.

Molto altro si può aggiungere a proposito dell'elusione, da parte di alti gradi, sottufficiali e reclute dell'armata politico-giornalistica atlantista, da Stoltenberg e von der Leyen fino agli inviati e agli articolisti delle molte testate impegnate su questo fronte, di ogni accenno alle operazioni ostili e destabilizzanti messe in atto da emissari e fiduciari degli Stati Uniti d'America in tutti quei paesi dell'Europa orientale che circondano la Russia. Ci si è, sì, accapigliati intorno alla definizione dei fatti dell'«Euro-Maidan» del 2014 che hanno fortemente acuito la diffidenza russa nei confronti dei vicini, con chi parlava di un colpo di Stato pilotato dall'estero e chi sosteneva la tesi della spontanea insurrezione popolare, ma si è stati molto parchi di parole su fatti di non minore rilevanza in cui il ruolo attivo della Cia e dei suoi fiancheggiatori, il consueto George Soros in testa, è accertato ormai da tempo: dalla precedente “rivoluzione arancione” in Ucraina a quella “delle rose” in Georgia e agli analoghi tentativi non andati a buon fine in altre repubbliche ex-sovietiche, fino alle sommosse organizzate da Otpor con il dichiarato sostegno delle strutture operative statunitense contro il governo ser bo di Milosevic. Ma un pò di spazio va lasciato ad un altro aspetto, in apparenza più nobile ed “elevato” dell'offensiva ideologica atlantista di questi ultimi mesi: il richiamo all'eroismo ucraino e la sua assunzione a parametro di giudizio della superiorità morale dell'Occidente rispetto ai suoi rivali e detrattori.

Di questo genere della letteratura propagandistica può essere richiamato ad esempio un intervento di Giovanni Belardelli su «il Foglio» (da sempre vangelo dell'ecclesia occidentalista) dello scorso 21 maggio, laddove si legge che a guidare chi esprime qualche dubbio sullo scenario manicheo della lotta tra il Male russo e il Bene ucraino è «una pratica della politica intesa come capacità di se­guire gli orientamenti – anzitutto le paure – dell'opinione pubblica piut­tosto che cercare dì farsi guidare da qualche ideale o principio». Pratica a cui corrisponderebbe «l'estremismo antioccidentale di molti intellettuali: che peraltro, se consideriamo la categoria gene­ralmente intesa, già in passato si ab­beverarono a tutte le fonti avvelena­te dalle ideologie del Novecento. Al­cuni anzi a più d'una, esaltando prima la “rivoluzione” condotta da Mussolini e poi sperando in quella di Giuseppe Stalin». Questo antiamericanismo, «che in Italia ha per giunta avuto in passato una manifestazione fascio-comunista», lungi dall'essere veicolo di ideali alternativi a quelli difesi dai cultori dell'american way of life, si alimenterebbe in vece di « sentimenti, aspirazioni, timori più istintivi e imme­diati», del desiderio di tornare al “mondo di ieri”, ad «una nuova belle époque [iniziata] nel 1945 [e che]non avrebbe mai avuto fine». La resistenza ucraina avrebbe dissolto quella illusione, proiettandoci verso una non meglio definita nuova era.

Curioso: i liberali, che fino a ieri plaudivano alla fine della Storia assicurandoci che il trionfo dei loro principi rappresentava il gioioso punto d'arrivo della lunga cavalcata dell'umanità, oggi hanno cambiato opinione e oppongono i valori guerrieri al vile pacifismo degli avversari. Davvero, ogni argomento, e ogni rovesciamento di veste, sembra tornare buono pur di ridurre i recalcitranti all'obbedienza al nuovo, e già invecchiato e scricchiolante, ordine mondiale.

Marco Tarchi

i Sulla capacità di influenza dei media sulle opinioni dei loro frequentatori è aperto da quasi un secolo, in sede scientifica, un interminabile dibattito. Scartata l'ipotesi detta del “proiettile magico” o dell'“ago ipodermico”, che implica una capacità di manipolazione dei primi sui secondi pressoché illimitata, si sono succedute teorie più o meno convinte dell'esistenza di un forte potere di condizionamento di giornali, radio, tv e, oggi, social media sugli utenti. A noi pare che, anche alla luce dello spettacolo che la realtà odierna ci propone quotidianamente, siano sempre attuali molte delle considerazioni esposte nel 1997 da Giovanni Sartori nel suo celebre e discusso Homo videns (Laterza): in un mondo in cui l'homo sapiens ha perso gran parte delle sue capacità di astrazione e riflessione e il modo in cui una notizia viene presentata determina, agli occhi dei più, la sua credibilità, il potere di indirizzo dei mezzi di comunicazione di massa è decisivo. E, aggiungiamo, i canali “orizzontali” come Facebook, Twitter, Instagram, TikTok ecc. non costituiscono affatto quel contrappeso che molti dei loro utenti vagheggiano, giacché creano soprattutto “camere dell'eco” dove si parla quasi solo con interlocutori già convinti delle proprie tesi, in una logica di compartimenti stagni che non aiuta minimamente il dialogo.

Marco Tarchi





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Data pubblicazione: 2 agosto 2022

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